mercoledì 21 dicembre 2011

Documento conclusivo dell'assemblea del movimento No Debito svoltasi a Roma il 17 dicembre 2011






Documento conclusivo dell'assemblea del movimento No Debito svoltasi a Roma il 17 dicembre e approvato all'unanimità dalle circa 600 persone presenti. Il documento contiene gli impegni politici e organizzativi assunti al termine del dibattito.

Il Comitato No Debito è un movimento organizzato che si riconosce nei contenuti dell'appello "Dobbiamo fermarli. Noi il debito non lo paghiamo. 5 proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche". Esso raccoglie militanti singoli, attraverso la loro adesione individuale all'appello, e soggetti collettivi e organizzati politici e sociali.
Il Comitato No Debito si propone l'obiettivo di costruire un movimento di resistenza contro il pagamento del debito, contro le misure antipopolari e di distruzione di quanto resta dello stato sociale e contro ogn grave attentato alla democrazia, ai diritti e a ogni concetto di rappresentanza popolare. Ma dal momento dell'insediamento del governo Monti, che rappresenta in modo coerente il "governo delle banche e della BCE" che avevamo richiamato nel testo dell'appello, al precedente obiettivo si affianca anche quello di costruire e dar voce a un'opposizione politica e sociale a questo governo, contrastando l'immagine di un quadro politico a cui si opporrebbero solo il razzismo della Lega e il fascismo dell'estrema destra.
L'assemblea, facendo propria la decisione di dare continuità anche organizzativa al movimento No Debito, assume dunque come punto qualificante della propria iniziativa la costruzione dell'opposizione e dell'alternativa al governo Monti.
In questo quadro, gli impegni che si assumono sono:
1.      la generalizzazione nei territori dei Comitati No Debito;
2.      una campagna per chiedere il diritto al voto referendario sulle scelte economiche e sociali che ci sono imposte dal vincolo europeo;
3.      l'approfondimento della piattaforma del nostro movimento sempre partendo dai 5 punti dell'assemblea del 1' ottobre;
4.      l'indizione per il 21 gennaio di un No Debito Day per una vasta e diffusa iniziativa di contrasto al pensiero unico sulla lettura del debito, sulla ineluttabilità del suo pagamento e della conseguente macelleria sociale che sta devastando la società e la democrazia in vari paesi europei e per sostenere la legittimità e l'opportunità che i popoli possano pronunciarsi con un voto democratico sui vincoli europei;
5.      l'appello a tutte le persone e a tutte le forze organizzate che vogliono opporsi al governo delle banche in Italia e in Europa e al governo Monti per una prima grande manifestazione nazionale a Milano, in una data successiva allo sciopero con manifestazione a Roma del sindacalismo di base del 27 gennaio e alla manifestazione della Fiom dell'11 febbraio, scioperi e manifestazioni a cui il movimento No Debito aderisce e che sostiene. La manifestazione a Milano sarà preparata e preceduta da incontri e assemblee affinché essa sia promossa e organizzata dal fronte di forze il più vasto possibile. In ogni caso l'assemblea fa appello perché il prossimo vertice Monti-Merkel-Sarkozy, previsto in Italia a gennaio, sia raggiunto dalla contestazione alla politica dei governi, contro la politica della BCE e delle istituzioni europee, contro i tagli allo stato sociale e l'aggressione ai diritti dei lavoratori;
6.      la costruzione di un'iniziativa di mobilitazione europea contro il debito e contro le misure di austerità che colpiscono via via sempre più numerosi popoli europei.
Gli aderenti individuali e i soggetti organizzati partecipanti si impegnano a partecipare e a sostenere le manifestazioni e le iniziative pubbliche nazionali del movimento No Debito, a costruire i comitati locali e a sostenere e a stimolare l'allargamento dell'adesione individuale e collettiva e ad esso.
Il movimento No Debito si articola in coordinamenti nazionale e territoriali, aperti alla partecipazione degli aderenti individuali e di rappresentanti dei soggetti collettivi. Periodicamente organizza assemblee nazionali e territoriali.
I coordinamenti, ai diversi livelli, sono titolari delle decisioni sugli orientamenti politici generali, sulle iniziative pubbliche, sulle scelte organizzative. Queste scelte vengono adottate con il metodo del massimo consenso.
I coordinamenti possono scegliere di indicare uno o più portavoce e di formare commissioni tematiche (organizzativa, comunicazione, su specifiche manifestazioni e iniziative, ecc.) a cui demandare approfondimenti e decisioni specifiche.
Il movimento No Debito autofinanzia le proprie iniziative attraverso i contributi volontari degli aderenti individuali e attraverso contributi concordati con i soggetti organizzati partecipanti.
A tale scopo il movimento No Debito apre un conto corrente sul quale transiteranno le entrate di cui sopra e sul quale saranno addebitate le spese. La contabilità del Comitato No debito sarà periodicamente pubblicata.

martedì 20 dicembre 2011

Super Mario : Il berlusconismo oltre Berlusconi


 
Furio Mocco 16/12/2011
Una vecchia storiella racconta come ai funerali di un Re terribile e tiranno,
mentre tutti i popolani facevano festa, un vecchio in disparte sembrava tutt'altro che felice.
E quando gli chiesero il motivo della sua tristezza,e perchè non gioisse, egli rispose:
"SI, voi gioite per la morte di questo terribile tiranno, ma io penserei piuttosto a che pezzo di fetente è il suo figliolo, destinato ora al trono ...!!!"
L’attualità di questa storiella è del tutto evidente nella vicenda della sostituzione di Silvio Brlusconi con Mario Monti.
Chi si è inebriato e ha festeggiato questo evento, finge o più  gravemente continua a negare, che il nuovo RE ne incarni le politiche liberiste e macellaie. Le porta alle estreme conseguenze.
L’unica differenza tra i due RE è che oggi la macelleria sociale viene annunciata in doppiopetto. Con sobietà. ‘Poco Poco , Piano Piano’, come direbbe  Gigi Marzullo.
La ricetta Monti che il parlamento italiano sta per votare, sostenuta da uno schieramento di centro-pseudo sinistra-destra, costituisce l’avvio di una procedura di default (fallimento) del nostro paese, pilotato dalle banche,dalla BCE e dai poteri occulti che decidono sulla vita e sulla sopravvivenza di milioni di cittadini italiani ed europei e di intere nazioni.
La manovra titolata ‘Salva Italia’ proietta il nostro paese in una procedura di fallimento di cui subdolamente tutti i suoi sostenitori continuano a non parlare.
Procedura già applicata in Argentina, in Grecia ed ora in Italia.
Come in tutte le procedure di fallimento,in virtù dell’urgenza e della straordinarietà della situazione, saltano le regole e gli ordinamenti applicati ai normali rapporti socio-economici dei soggetti coinvolti nell’evento.
Salta così la democrazia, salta il dettato costituzionale,  saltano tutti i rapporti e patti sociali in essere. Essi vengono sostituiti con le regole auree,o presunte tali, dell’economia e della finanza speculativa.
Ciò sta avvenendo in tutti gli stati cosiddetti ‘maiali’ Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Gracia e Spagna).
Apripista di questo percorso per cronologia è la Gracia, seguita a pochi mesi di distanza dall’Italia.La nomina imposta dal Fondo Monetario Iternazionale di Monti in Italia e di Papademos in Grecia non è per nulla casuale.
Lo stampo classista,demagogico , provocatorio e arrogante della manovra sta nelle parole di super Mario, nelle finte lacrime della Fornero, nella salvaguardia degli interessi dei potentati bancari e finanziari per i quali lo stato garantisce fondi di salvaguardia senza richiedere in contropartita alcuna garanzia. Il suo stampo classista,demagogico , provocatorio e arrogante sta nella difesa di un patto stipulato con gli evasori e gli speculatori che hanno impoverito in modo irreversibile il nostro paese. In base a questo patto non è permesso richiedere e tassare il maltolto.Sta nell’accanimento terapeutico scatenato su intere generazioni.Sta nella prosecuzione di una strategia di guerra generazionale padri-figli-nipoti che addita i ‘padri’ come i responsabili del disastro economico-sociale in atto.  
Sta nella politica dei ‘due pesi,due misure’ applicata ai contratti stipulati con i grandi evasori, che sono intoccabili, rispetto a quelli stipulati con i cittadini che diventano sudditi in una rapporto istituzionale ridotto a signorinaggio e  strozzinaggio.
Tutto ciò avviene grazie alla complicità degli accordi sindacali,al patto del 28 giugno, alla concertazione giocata da anni sulla contrazione dei diritti. Grazie al sistema elettorale bipolare che da oggi diventa monopolare, grazie alla continua disapplicazione del dettato costituzionale perpetrato da chi subdolamente viene presentato quale suo estremo garante.
La manovra Monti applica integralmente la ricetta Draghi-Trichet inviata a Silvio Berlusconi in estate. Le posizioni esternate in allora dalle forze politiche rappresentate in parlamento concretizzano oggi la larghissima maggioranza di cui dispone il governo Monti. L’assunzione dogmatica del mercato, di una politica che adbica definitivamente in favore dei potentati economici e finanziari , del pareggio di bilancio sancito in costituzione, sono assunti come faro e progetto politico anche dal ‘riformismo’ italiano del XXI secolo che osa autodefinirsi ancora baluardo e difensore della democrazia,della costituzione e dello stato sociale.
In nome di queste regole si è permeso e concretizzata la dilapidazione di un patrimonio di professionalità, conoscenze, tessuto economico-sociale immenso.Veicolando accordi,dismissioni,privatizzazioni, delocalizzazioni di cui Fiat e Fincantieri sono gli ultimi esempi. Le svendite delle imprese continuano.Oggi 16 Dicembre 2011 per cento milioni di euro lo spumante Gancia passa al re della vodka, Roustam Tariko.
Dopo Martini e Cinzano,Parmalat un altro pezzo cambia passaporto a conferma che l'Italia è un'appetibile terra di conquista per gli stranieri. Bertolli, Carapelli,Olio Sasso , Buitoni, Perugina , Galbani, Cademartori e Locatelli sono casi già archiviati. Anche l’alimentare perde progressivamente pezzi come la manifattura e la cantieristica.
In nome del mercato e della competitività si è realizzato il controllo e la diminuzione del salario diretto e differito di milioni di lavoratori,si è avviata la clamorosa truffa dei sistemi previdenziali privati che sono stati in grado di intercettare somme cospicue di denaro fresco per investirlo nella speculazione finanziaria e nella delocalizzazione produttiva di imprese.
L’insostenibilità contabile,oltre che morale, della manovra è nei risultati economici ad essa connessi. Questi risultati parlano,nonostante le poderose ed immense risorse monetarie sottratte ai sudditi, di recessione e disoccupazione.
Al di la della demagogia utilizzata per veicolare la riforma pensionistica, che indica nella insostenibilità dei conti dell’istituto previdenziale la ragione della manovra, la ragione di questo provvedimento sta nel fatto che quello previdenziale è, e rimarrà, l’unico capitolo o ‘cassetto’ del bilancio italiano dispobilie per liquidità ed in attivo. Dal quale attigere per finanziare una poderosa manovra di redistribuzione di risorse monetarie dai ‘poveri’ verso i ricchi.
Se i governi di centro-destra Berlusconi-Bossi-Tremonti sono i primari responsabili di queste politiche, i governi Ciampi,Amato, Dini,D’Alema,Prodi sono quelli che hanno aperto definitavente la strada al massacro sociale in atto, protetti da un consenso sociale costruito e veicolato mediante la concertazione , l’assunzione del ‘riformismo’ e della modernizzazione del paese giocato sui diritti globali.
Ricostruire un tessuto sociale capace di opporsi e fermare questo massacro,dopo anni di ‘pace sociale’ imposta dalla concertazione, è impresa difficile e lunga.
Certo non basta qualche ‘sciopericchio’ giocato sul pseudo miglioramento di alcune parti della manovra Monti , finalizzato a giustificare l’appoggio incondizionato del PD al governo.
La realtà odierna ci consegna una fotografia del centro-sinistra di Vasto ,con la sola esclusione dell’IDV di Di Pietro intenzionato a non votare la manovra, del tutto contiguo e allineato alle politiche economiche e monetarie di un blocco sociale finanziario e confindustriale in rotta di collisione con gli interessi di milioni di cittadini italiani.
Ricostruire un’opposizione sociale forte, protagonista di stagioni di lotte e rivendicazioni alternative alla sudditanza alle leggi capitalistiche e finanziarie è il compito a cui è sempre stata chiamata storicamente la sinistra italiana e internazionale. Questo compito deve essere svolto assumendo come punto di partenza l’impossibilità di intraprendere scorciatoie tecnico-elettroralistiche storicamente controproducenti.
Tutto ciò è vero sia a livello nazionale che a livello locale(comuni,provincie,regioni), dove i contraccolpi della manovra Monti si concretizzano nella svendita dei beni comuni, nelle privatizzazioni dei servizi pubblici locali, sui quali la manovra punta.
L’operato del governo Monti e ciò che accadrà nei prossimi mesi ha già profondamente mutato il quadro politico e sociale italiano.
Firenze e Torino sono le stesse facce della deriva sociale xenofoba e razzista intrapresa e alimentata in questi anni dalla Lega nord, che oggi tenta di rifarsi una verginità e una presentabilità posizionandosi all’opposizione del governo del ‘Professore’. Tentando di cancellare con un colpo di spugna le scelte politiche effettuate in questi anni di governo.
Pensare che conclusa l’esperienza Monti tutto tornerà come prima è un’altra menzogna che ci viene raccontata giornalmente.
Mentre qualcuno ancora parla di difendere il dettato costituzonale, oggi di fatto siamo transitati in una repubblica presidenziale, a democrazia sospesa, nella quale al ‘popolo sovrano’ è stato impedito di esprimersi, e al quale viene imposto di immolare le parti più intime del proprio corpo sull’altare del capitalismo economico e finanziario.
Si deve Ripartire

Iniziativa 28 Dicembre 2011 ore 20.45 Sala Gallesio Finale




28 Dicembre 2011 ore 20.45 Sala Gallesio Finale
 
relazione Tecnico / introduttiva di Marco Pellifroni.
A seguire un intervento per ognuna delle organizzazioni coinvolte (PCL Finale, PRC Finale, Unitiallabase)   
dibattito

mercoledì 7 dicembre 2011

Scioperino,scioperetto,sciopericchio - Comunicato Confederazione Unitaria di Base di Savona


Contro la manovra del governo Monti
Scioperino,
                                               scioperetto,
                                                                                              sciopericchio.
SCIOPERO GENERALE

Di fronte al pesantissimo attacco alle condizioni di vita e salariali dei lavoratori, alle pensioni, a qualunque tipo di servizio pubblico, dalla sanità alla scuola ai trasporti, portato avanti dal governo Monti (mai eletto dal popolo ma imposto dalla BCE e dalle banche nostrane, cioè coloro che la crisi l'hanno generata, a tutela dei propri privilegi) CGIL CISL e UIL hanno indetto per lunedì 12 dicembre tre ore di sciopero.
Ma questa iniziativa, la cui esiguità di fatto preclude a quasi tutti i lavoratori la possibilità di partecipare a qualunque manifestazione, è ulteriormente resa poco significativa dalle motivazioni stesse a promozione dello sciopero: I dirigenti di questi sindacati non vogliono impedire la manovra ma protestano solo perchè non sono stati ammessi al tavolo per concertarla, o quantomeno ne chiedono solamente parziali riduzioni.
Ciononostante milioni di lavoratori lunedì mattina scenderanno in sciopero, a difesa delle proprie condizioni di vita e dei propri posti di lavoro, estendendo lo sciopero in molte fabbriche e categorie e manifestando ovunque l'indisponibilità a pagare i costi di una crisi che non hanno originato e che non vogliono pagare.
Anche il concetto di equità è una truffa inaccettabile: non solo i lavoratori, i pensionati, i giovani hanno già pagato e duramente, ma gli effetti di queste scelte non peserebbero in modo proporzionale.
Mentre per un lavoratore ulteriori sacrifici significherebbero saltare il pasto per lorsignori equivarrebbero al massimo alla rinuncia dell'oliva nell'aperitivo.
Per questo Lunedì mattina saremo in sciopero anche noi, nell'ottica di un'indispensabile unità alla base dei lavoratori, non a sostegno delle proteste della Camusso e di Bonanni per non essere stati accettati al tavolo, ma per dire che questa manovra non deve passare, che abbiamo dato fin troppo e che è ora di far pagare solo chi non ha mai pagato, attraverso una lotta che a colpi di sciopero generale segni l'inizio di una riscossa del mondo del lavoro.

lunedì 28 novembre 2011

L’UNIONE EUROPEA DENTRO LA CRISI


Comitato No Debito

Lo slogan “Noi il debito non lo paghiamo” pone la necessità di approfondire le questioni non semplici che questa prospettiva pone. Diverse sono state le iniziative con esperti/e, il Comitato No Debito propone un breve ciclo di seminari.

Il primo seminario su
“L’UNIONE EUROPEA DENTRO LA CRISI.
Oligarchie e mercati finanziari”

si terrà il 10 dicembre a Roma, Via Giolitti 231 (a fianco della Stazione Termini), h 10-17.

Sono stati invitati al seminario Danilo Corradi, Giorgio Gattei, Luciano Vasapollo, Vladimiro Giacchè, Maurizio Donato e Domenico Moro.
Ad essi abbiamo posto alcune questioni che riteniamo cruciali per delineare una prospettiva politica di non pagamento del debito. Esse riguardano:

  • Il rapporto tra sistema monetario e corrispettivo in valore nel sistema economico;
  • la dinamica storica del debito italiano;
  • l’analisi della distribuzione del possesso dei titoli del debito pubblico, con riferimento specifico a quelli italiani;
  • esperienze di default: dove e come;
  • il ruolo delle banche e della finanza nel capitalismo globalizzato;
  • movimenti e possibili risposte alternative alla crisi: condizioni di classe/movimenti sociali/elementi di programma alternativo;
  • quale Europa alternativa all’UE.

Contiamo di organizzare un secondo seminario a gennaio – a Milano o a Bologna – con altri/e esperti/e come Bellofiore, Fumagalli, Napoleoni.

lunedì 21 novembre 2011

RESOCONTO RIUNIONE FIRMATARI LIGURIA APPELLO "DOBBIAMO FERMARLI" - Genova, 17 novembre 2011

Si è tenuta Giovedì 17 novembre,  nei locali di Sinistra Critica genovese, la riunione dei firmatari dell'appello "Dobbiamo fermarli" . L'incontro, cui erano presenti  oltre venti dei 90 firmatari liguri dell'appello, è stato aperto da una breve relazione di Aurelio Macciò che ha ripercorso le tappe che hanno portato a questa convocazione, ribadendo l'importanza di dare un seguito anche locale a quanto avviato il 1 Ottobre con l'assemblea al teatro Ambra Jovinelli. In linea con quanto previsto a livello nazionale, sottopone ai presenti la proposta di indire un assemblea pubblica per illustrare i 5 punti della piattaforma. In particolare la questione del pagamento del debito su cui verrà lanciata una campagna nazionale che ponga la questione della necessità di un pronunciamento referendario sui diktat della Bce attraverso una petizione popolare. Naturalmente i dettagli e le modalità di tale proposta vanno ancora definiti e saranno discussi all'assemblea nazionale del 17 Dicembre . Entro tale data va dunque convocata l'assemblea ligure, cui si è proposto di invitare Giorgio Cremaschi. In questa assemblea sarà posta anche la questione della costituzione di un Comitato no debito locale per gestire ed organizzare i futuri appuntamenti. A conclusione di questo intervento iniziale viene rivolto un invito ad organizzare analoghe iniziative anche nelle altre Provincie liguri. (A tal proposito le compagne presenti di Savona comunicano che sono in via di definizione due appuntamenti nel ponente ligure).
La discussione che segue è  ampia e molto articolata con numerosi interventi.(Demartinis, Lavaggi, Martini, Casarino, Rimassa, Mannoni, Grasso, Gaggero, Marino, Vassallo, Timossi, Pardini, Gesino). Viene accettata la proposta dell'assemblea così come formulata. Emergono poi alcuni temi su cui si registra una larga condivisione. In primo luogo l'attualità e la gravità rappresentata dal nuovo governo Monti, governo delle banche nato per dare concreta attuazione alle direttive bce , che ha in programma nuovi e durissimi attacchi ai diritti dei cittadini e dei lavoratori, privatizzazioni dei beni comuni ed ulteriori sacrifici per chi ha già duramente pagato. Molti interventi sottolineano la crisi di sovranità cui assistiamo in questa fase ed esprimono anche forte preoccupazione per la tenuta democratica.
In questo senso viene sottolineato come l'appello ed i 5 punti rappresentano un occasione estremamente importante per la chiarezza dei contenuti e degli obbiettivi indicati per coagulare e contribuire a costruire, nella chiarezza, una forte opposizione sociale, oggi purtroppo assente.
Un altro tema particolarmente sentito è quello della necessità di un forte radicamento locale di questa inizativa, di una connessione con tutte quelle realtà  di lotta e di movimento attive sul territorio e di un percorso il più aperto ed inclusivo possibile. Alcuni interventi invitano alla costruzione di specifiche iniziative locali per lanciare la proposta. In questo senso vengono anche formulate  proposte concrete di iniziativa da proporre all'assemblea ligure.
Infine emerge una richiesta comune di definire con più precisione la proposta in merito alla questione del debito, aprendo anche una discussione ed un approfondimento sugli aspetti tecnici, oltrechè politici e sociali, della questione. Numerosi sono gli interventi in cui viene sollecitata la necessità di una critica radicale al ruolo dell'Europa ed  alle modalità di integrazione in atto.
A conclusione degli interventi viene dato l'incarico di preparare l'assemblea ai compagni : Aurelio Macciò, Bruno Demartinis, Claudio Martini, Roberto Pardini, Stefano Boero, Rita Lavaggi, Aldo Cardino, Maurizio Rimassa. Viene precisato che tale gruppo è aperto alla partecipazione di tutti i compagni interessati ed ha una funzione unicamente organizzativa. Il primo appuntamento è per Martedi 22 alle ore 17 presso Sinistra Critica.
La data dell'Assemblea, che si svolgerà a Genova presso la sala del CAP, verrà stabilita in un giorno compreso nella prima metà di Dicembre dopo aver sentito la disponibilità di Giorgio Cremaschi.
Viene ribadito l'invito ad organizzare incontri analoghi anche nelle altre Province liguri, con la disponibilità dei compagni genovesi a presenziare a tali incontri. Infine si ricorda a tutti la possibilità di iscriversi alla mailing list regionale. Viene dato mandato a Maurizio Rimassa di scrivere il report della riunione.

Genova, 18/11/11

martedì 15 novembre 2011

Comunicato stampa sullo sciopero TPL del 14 novembre


NON SOLO TPL
Di fronte all’ennesimo sciopero del Trasporto Pubblico Locale più che riuscito, con altissime percentuali di adesione ed un corteo a cui hanno partecipato numerosi lavoratori sia di Savona che del Ponente Ligure, che hanno atteso fino all’ultimo la delegazione che si è incontrata con il Sindaco Berruti, la CUBTrasporti , che ha contribuito a promuoverlo, esprime la propria preoccupazione per una vertenza che se non verrà allargata anche alle altre categorie, quantomeno dei servizi, insieme alla cittadinanza fruitrice dei servizi stessi, avrà ben poche possibilità di successo.
Ci chiediamo infatti perché, quando i tagli colpiscono tutti i settori dei servizi sociali, dalla sanità alla scuola all’assistenza ed al trasporto pubblico, mentre i dipendenti di quest’ultimo vengono giustamente chiamati alla lotta contro la riduzione del servizio e degli stipendi, i lavoratori delle altre categorie non vengono mobilitati e i dipendenti TPL , insieme alle proprie Organizzazioni Sindacali, restano isolati a combattere una battaglia che obiettivamente è al di sopra delle loro forze.
La legittima richiesta di una diversa politica aziendale, avanzata al Sindaco di Savona in quanto tra i maggiori azionisti, non basterà ad impedire tagli alle corse ed al personale se non si otterranno garanzie di finanziamento al trasporto pubblico almeno pari agli anni precedenti.
La riduzione dei servizi, inoltre, colpisce tutta la cittadinanza, ed in particolare le classi meno abbienti, i pensionati, gli studenti, le casalinghe, i cassaintegrati, i giovani disoccupati ed i precari, che privati del servizio pubblico nella maggior parte dei casi non hanno la possibilità di far ricorso a quello privato.
Una politica che si preoccupa più di garantire profitti alle banche che servizi ai cittadini è una politica iniqua e va combattuta chiamando a raccolta tutto il mondo del lavoro, cominciando dai dipendenti delle aziende in crisi o sottoposte a tagli, ma per essere allargata anche ai settori non ancora direttamente coinvolti ed al resto della cittadinanza.
Opporsi ai tagli è un obiettivo sacrosanto, ma per essere credibile deve essere coniugato alla lotta contro il diktat europeo e contro il rifinanziamento delle banche,  e non può che passare attraverso la mobilitazione di tutti i lavoratori.
Per la CUBTrasporti
Maurizio Loschi  

lunedì 14 novembre 2011

A tutti/le firmatari/ie di Genova e della Liguria dell’appello “Dobbiamo fermarli! Noi il debito non lo paghiamo – 5 proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche”

Convocazione di un primo incontro tra tutti/le firmatari/ie per provare ad organizzarci e verificare insieme le iniziative che anche sul nostro territorio sarebbe opportuno intraprendere, così come si è fatto e si sta facendo in altre città e regioni in tutta Italia.
In particolare, pensiamo alla necessità di organizzare anche a Genova un’assemblea pubblica e aperta, così come indicato nel documento conclusivo approvato nella grande assemblea che si è svolta lo scorso 1° ottobre a Roma al Teatro “Ambra Jovinelli”.
Ma di questo e di cosa altro eventualmente organizzare ne discuteremo tutt* meglio nel nostro incontro che è convocato per

giovedì 17 novembre – ore 17.00
presso la sede genovese di Sinistra Critica
via San Luca, 15/7 – 3° piano

Naturalmente, la nostra iniziativa parte dalla necessità di rompere il vincolo politico, economico e anche ideologico e culturale del “pagare il debito”, che viene considerato come un a priori assoluto, e dal fatto che noi, la più grande parte della società, ci consideriamo piuttosto tra i creditori.

Nota di Maurizio Loschi sullo sciopero del 17 Novembre

Cari Compagni,
mentre con la nomina di Monti a presidente del consiglio si apre la
porta ad una manovra che esaudirà i voleri delle banche europee senza
alcuna forma di opposizione a livello parlamentare, la risposta operaia
tarda a venire.
Solo il sindacalismo di base ha indetto uno sciopero, la cub il 17
novembre, altri il 2 dicembre, mentre quello della CGIL era previsto per
il 5 dicembre ma non si sa se sarà confermato poiché difficilmente
questa andrà contro le decisioni del pd se questi appoggerà il governo
Monti.
E' evidente che questa risposta è insufficiente e si fa fatica a capire
perchè i lavoratori si lascino derubare senza reagire, ma è di
altrettanto difficile comprensione il perchè neppure i sindacati di base
riescano a concordare uno straccio di data e percorso comune.
Ci si è provato? Chi si tira indietro? quali sono i motivi di questa
apparentemente incomprensibile distanza e divisione? Ci sono spazi per
organizzare lotte comuni e coinvolgere settori dei confederali?
Giovedì 17 novembre, in occasione dello sciopero indetto dalla CUB, ci
troveremo in ASSEMBLEA APERTA NELLA SEDE CUB DI VIA CRISPI 18 ROSSO A
SAVONA ALLE ORE 9,30 per provare a discuterne.
L'assemblea ovviamente è aperta a tutti i lavoratori interessati a
questa discussione.
Maurizio Loschi

Giovedì 17/11 sciopero generale Indetto da Cub, Cobas, Comitato Immigrati



Giovedì  17/11 sciopero generale
Indetto da Cub, Cobas, Comitato Immigrati

Il  modello di sviluppo fondato sui valori e gli interessi del capitale, sostenuto dai “sacerdoti” delle banche centrali e attuato dai governi richiede continui e crescenti costi per lavoratori, giovani e pensionati, (ultimi in ordine di tempo i licenziamenti facili, il  taglio alle pensioni e alla scuola pubblica.)

Dobbiamo riprenderci il diritto di decidere e imporre con la lotta un modello di sviluppo ecosostenibile fondato sui beni comuni, la ridistribuzione del reddito, il diritto al lavoro, alla salute, allo studio e alla casa.

Per questi obbiettivi i lavoratori tutti non devono farsi più strumentalizzare da chi è corresponsabile dell’attuale situazione e utilizza la nostra rabbia per legittimare la propria rappresentanza nei confronti di governi e padroni.

Le principali rivendicazioni della Cub:

1.      Introduzione di una patrimoniale sui grandi patrimoni.
2.      Moratoria sugli interessi sul debito; vendita del tesoro della Banca d’Italia ( 100 m.di di euro).
3.      Lotta all’evasione fiscale, alla corruzione, al lavoro nero, agli infortuni ( 400 m.di di  € annui).
4.      Cancellare l’acquisto dei caccia bombardieri F 35 ( 16 miliardi) e eliminare le spese militari.
5.      Eliminare i ticket. Potenziare la sanità e la scuola pubblica, usando le risorse di quelle  private.
6.        Tagliare la spesa pubblica per le inutili grandi opere.
7.        Cancellare la norma capestro contenuta nella legge 122 /2010 che ha privato 45.000 lavoratori  del diritto alla mobilità e alla pensione.
8.      Parità di diritti per i migranti; diritto all’asilo ai rifugiati; cittadinanza per i nati in Italia permesso di soggiorno per chi perde o ha un lavoro o denuncia il lavoro in nero.
9.      Attuazione di accordi bilaterali con tutti gli stati per l’unificazione dei contributi pensionistici.

Giovedì  17 novembre Sciopero Generale
A Savona assemblea aperta nella sede di Via Crispi  18 rosso ore 9,30 per discutere insieme come allargare il fronte dei lavoratori ed unificare le lotte.

giovedì 10 novembre 2011

Il Grande Golpe Globale - chi sono Mario Monti e Luca Papademos?

Teocrazia del mercato e sovranità


di Furio Mocco 10 Novembre 2011

Quanto sta accadendo in Europa e in Italia dimostra ancora una volta la vacuità delle discussioni del teatrino politico e mediatico di regime.
In questi giorni si assiste al più evidente stravolgimento della nostra carta costituzionale veicolato dai narratotri del mercato e dell’economia, siano essi giornalisti, economisti, politici o persone istituzionali cosiddette ‘super partes’ come il presidente della Repubblica.
Ciò che si sta consumando in Italia come in Europa, in Grecia, in Spagna ha un solo nome “Teocrazia del mercato e delle banche”.
La BCE, le banche, i grandi speculatori finanziari e l’Europa, impongono agli stati nazionali un modello istituzionale ademocratico nel quale i poteri forti si auto eleggono e si incoronano a dominatori del mondo.
A questi poteri a tutto si deve piegare e inchinare.
Il regime imposto ha profondamente mutato l'assetto delle nostre società nel quale la dimensione economica assorbe ogni altra istanza.
Ad un sistema di “rappresentanza” si sta sostituendo un sistema di sudditanza e di signorinaggio a favore dei grandi speculatori finanziari di cui gli pseudogoverni
tenico-politici nazionali sono gli esattori.
E’ incredibile come oggi non ci sia più nessuno che sia responsabile delle proprie scelte e azioni politiche. Il refrain diventa : “noi non vorremmo ma ce lo impone l’Europa, quindi dobbiamo farlo”. Il paese perde sovranità e i dicktat di banche e speculatori finanziari diventano le linee guida delle azioni dei governi nazionali.La lettera di Trichet e Draghi vengono assunte da maggioranza e opposizione come direttive per svolgere l’azione di governo.Maggioranza e opposizione si rimproverano l’un l’altra di non essere all’altezza e di possedere la credibilità necessaria alla realizzazione delle riforme che la BCE invoca.
A ciò si uniscono i continui richiami del presidente Napolitano su riforme condivise da tutti.
Non c'è alternativa, Tina: “There Is No Alternative”,scrive Giorgio Cremaschi nel libro ‘il regime dei padroni’ “le scelte del mercato hanno la stessa oggettività della natura, sono eventi naturali. Il mercato è la prima natura. La natura vera, tutto il resto, viene dopo e può essere manipolato a piacere. L'aria, l'acqua, la terra e la vita possono essere sfruttate e devastate, perché gli unici limiti realmente intoccabili sono quelli del profitto”.
Un potere che si legittima dando forza di natura alle proprie scelte, e che risulta insindacabile per decreto.
Così la lista dei cosiddetti governi tecnici si allunga. A quello di Carlo Azeglio Ciampi, che il 30 giugno del 1993 nominava un “Comitato di consulenza per le privatizzazioni”, presieduto da Mario Draghi, uomo Goldman Sachs, non a caso oggi arrivato alla presidenza della BCE; a quello di Giuliano Amato,che di tecnico non si sa bene cosa abbia avuto, si aggiungerà nei prossimi giorni quello di Mario Monti.
Il pensiero liberista è diventato ormai pensiero comune,ed è stato capace di concretizzare la teoria gramsciana dell’egemonia penetrando anche nel fronte opposto, quello della sinistra parlamentare.Tutto ciò è avvenuto grazie all’inteconnessione e allo scambio di posizioni e di uomini tra politica ed economia a testimonianza della intecambiabilità e dell’abdicazione della politica nella programmazione economica.Ciampi,Luca Cordero di Montezzemolo ,l’ipotesi Mario Monti,sono solo alcuni esempi.
Il pensiero liberista e l’aspetto squisitamente economico pare abbracciare tutto e tutti, essi definiscono il perimetro che chiude il campo della politica reale; perimetro oltre il quale veleggiano solo le utopie.
Il problema oggi difronte a noi non è assolutamente tecnico ma politico,e mette in discussione anche e soprattutto la realizzazione dell’ Unione Europea su base monetaria e liberista.
Nel disegno liberista prima si creano i paesi  ”maiali”, PIGS (Portogallo, Italia e Irlanda, Grecia, Spagna), poi essi diventano aree sub-colonizzate, o di colonizzazione interna, a cui imporre la deindustrializzazione, le privatizzazioni, lo smantellamenti dei loro  legami con il mercato internazionale, l’abbassamento del costo del lavoro, con continue contrazioni su salario diretto e welfare. Questi paesi diventano quindi “importatori ideali”asserviti allo strapotere tedesco.
Oggi è in atto una vera e propria guerra finalizzata al passaggio di sovranità dagli Stati nazionali ad una entità monetaria sovranazionale.La rinuncia di Berlusconi e la sua sostituzione con Mario Monti sono parte di questo progetto,sulla falsa riga di quanto avviene in Grecia.Monti in Italia e Papademos in Grecia.
Alla guerra preventiva e permanente,alla guerra al terrorismo per l’esportazione della democrazia, alle quali siamo ormai già abituati, si affianca ora la guerra del ‘Debito Sovrano’ che impone un vero e proprio sciacallaggio su quanto rimane di stato sociale,di diritti e di democrazia.
I soloni dei sistemi elettorali utili a dare voce ai cittadini,al popolo sovrano, guarda caso oggi si trovano nel codazzo di chi si inchina alla prospettiva di un governo tecnico,il cui capo sarà investito senza alcun mandato elettivo e minimamente democratico.
La vicenda greca ,e le ripercussione all’annuncio di un referendum sulle ricette europee,dimostra come il regime ed il pesiero liberista sia allergico alla parola Democrazia.
In questo contesto il centro-sinistra rilancia un modello keynesiano privatizzato, ormai già immerso in una fase di transizione caratterizzata dalla piena disoccupazione del lavoro precario. Socialmente distruttiva, e preludio di una deriva reazionaria in forme inedite. Sostenere questa proposta significa stare fuori dal contesto storico-economico, significa costruirsi un mondo secondo le proprie illusioni e ingannare i lavoratori.   
Il pericolo ulteriore è che su questa visione distorta della realtà si chiami alla mobilitazione di massa a sostegno di uno schieramento,quello del centro-sinistra, che si candida a partecipare attivamente sia ad un governo tecnico,di larghe intese e dell’emergenza, che di legislatura e di prospettiva.
Un governo che non metterà in discussione le ricette liberiste europee; ma che concentrerà la sua azione solo sui tempi per realizzarle,naturalmente nell’ambito della concertazione e della pace sociale.
Il primo dovere della sinistra è oggi rigettare senza ambiguità le politiche di austerità, rifiutare le ricette Draghi-Trichet  che porteranno ad un aggravamento della crisi per milioni di famiglie. Occorre mobilitarsi sulla richiesta che ci sia da parte delle istituzioni europee, e stato per stato, un sostegno dell’occupazione, un aumento del salario, una difesa del reddito e del welfare, una fiscalità progressiva e sui patrimoni. Occorre condurre con forza la battaglia per la sostituzione, alla crescita quantitativa di matrice capitalistica, orientata al valore di scambio, con uno sviluppo qualitativo. Ciò significa una ‘socializzazione’ del livello e della composizione della produzione imperniato su ‘cosa e come produrre’.
Occorre rivendicare con forza la necessità di una consultazione popolare sulle ricette di macelleria sociale imposte dalla finanza distruttiva.
Stupisce il fatto che anche la sinistra cosiddetta ‘alternativa’ e ‘radicale’,se ancora esiste, è oggi più interessata a soluzioni tecnico-elettrolastiche ,alleanza democratica di cui peraltro parla solo Ferrero e non l’intero centro-sinistra, che ad una vera elaborazione di una strategia di uscita a sinistra da questa situazione.
Se è vero che Silvio Berlusconi si dimetterà, non è altrettanto vero che siamo fuori dal berlusconismo e dal pensiero liberista di cui Berlusconi ed il suo governo sono e sono stati espressione.
La lettera di intenti fatta pervenire alla BCE dal governo italiano,in risposta alla missiva di Draghi e Trichet,al contrario di quanto pensi Susanna Camusso, non è un elenco di luoghi comuni;bensì costituisce un vero e proprio manifesto della cura liberista giocata sulla contrazione dei diritti e dello stato sociale,la cui realizzazione, per ironia della sorte, sarà magari affidata ad un governo di certo-sinistra in piena applicazione del concetto di alternanza politica e di supremazia del mercato al di sopra di tutto!

Vasapollo:«In discussione Il modello del capitale»


Di Fabio Sebastiani da Liberazione 10 Novembre 2011


Proprio in questi giorni il dibattito a sinistra sulle questioni economiche e sulle possibili uscite dallaUe  sta arrivando a punti qualificanti. Non credi ci sia stato troppo ritardo?
Il ritardo è ancora di più di quello che sembra, soprattutto se letto alla luce di alcuni spunti di analisi che alcuni analisti marxisti che sottolineammo alcuni anni fa quando già negli anni '90 parlammo di crisi sistemica. Adesso dalle continue dichiarazioni degli organismi internazionali del capitale , o con ad esempio con quelle di Draghi e Trichet, abbiamo la prova che la crisi non è congiunturale. Mentre le crisi cicliche servono a distruggere forze produttive in eccesso, le crisi strutturali come quella del 1929 mettono in discussione il modello di accumulazione per rilanciare il sistema con un nuovo modello di accumulazione. Non a caso, allora se ne uscì con il fordismo, il keynesismo, il sostegno alla domanda, e la seconda guerra mondiale. Questa crisi è peggio di quella del 1929, poiché non si va configurando un nuovo processo di accumulazione e di valorizzazione compatibile con lo sviluppo delle forze produttive. Sempre in quel filone di ricerca marxista, al quale mi richiamo, facciamo risalire l’inizio della crisi sistemica attuale agli anni ’70, quando nei paesi a capitalismo maturo entrò in crisi il modello del consumo di massa e il fordismo, che non rispondeva più allo sviluppo delle forze produttive che richiedeva un nuovo modello di accumulazione. A fronte della terza rivoluzione industriale non c’è una nuova energia capitalisticamente conveniente e socialmente gestibile che la sostenga. Nel 1929 l’encomia non era globalizzata. Oggi con l’effetto domino non si salva più nessuno, poichè c’è appunto un passaggio che si instaura a partire dal 1971 quando si chiudono gli accordi di Bretton-Woods; ciò di fatto vuol dire la sopravvivenza sopra le proprie possibilità dei soli Usa che emettono dollari senza avere il corrispondente in oro. In pratica gli Usa da quel momento cominciano a vivere di debito esterno, interno, pubblico e privato.

Comunque l’Europa ha trovato una strada, la supremazia della Germania…
La verità è che il capitalismo sta nascondendo la polvere sotto il tappeto. Non è stato sufficiente delocalizzare ovvero esportare il fordismo in altre aree del mondo. Il risultato è che aumenta la massa complessiva del profitto ma diminuisce il saggio di profitto. Da qui nasce la supremazia della finanza, l’esplosione delle rendite immobiliari, finanziarie , di posizione.
Oggi il modello che si afferma è quello del paese esportatore ovvero la Germania. Il marco ha bisogno di crearsi un’area che sostenga questa impostazione di creditore internazionale. E’ su questa ipotesi che si comincia a costruire l’Europa. L’area dell’euro serve a sorreggere quel modello economico- produttivo diretto dall’export e credito della locomotiva tedesca. L’euro è una nuova area monetaria competitiva con il dollaro che esprime la forza e soddisfa le necessità competitive di un marco generalizzato.

Una supremazia effimera, certo non comparabile a quella degli Usa.
La Germania ha una doppia convenienza. Primo, perché ci possono essere dei ”maiali”, i PIGS (Portogallo, Italia e Irlanda, Grecia, Spagna) ovvero aree sub-colonizzate, o di colonizzazione interna, a cui imporre la deindustrializzazione, le privatizzazioni, con il corollario di smantellamenti e legami più forti con il mercato internazionale, abbassamento del costo del lavoro, con continue contrazioni su salario diretto e welfare. Risultato, abbiamo l’Unione Economica Monetaria e commerciale in cui i Pigs risultano essere ”importatori ideali”, ovviamente asserviti allo strapotere della Germania. Il debito pubblico corrispondente alla funzione di import e alla cattiva gestione interna viene acquistato dai paesi con il surplus, ovvero da Germania e Cina. Il passaggio che si sta attuando ora è che dopo l’Unione economica oggi serve l’Unione politica, cioè lo Stato sovranazionale dell’Europa dei potentati guidati dai tedeschi. La lettera di Trichet e Draghi a Berlusconi, ad esempio, in pratica impone il passaggio di sovranità e le decisioni di politica economica dagli Stati nazionali ad una entità sovranazionale. Questo non è poco. Non è poco se il Fmi impone i suoi ispettori pur in assenza di un prestito. Nessuno si sta rendendo conto che di fatto è stata dichiarata una guerra. A fianco a quella militare dichiarata dalla Francia alla Libia attraverso la quale si cerca di mettere in discussione la supremazia della Germania, c’è una guerra alle istituzioni degli Stati nazionali come in Grecia. Lo stesso stanno facendo da noi. Una guerra anche massmediatica in cui fa la comparsa la funzione terroristica della parola ”debito sovrano”e non più debito pubblico. Che poi vuol dire che se non si accettano sacrifici il singolo cittadino, il lavoratore precario, il pensionato al minimo, può mettere in forse la sovranità del suo paese.
E’ assurdo no?
Davanti alla crisi quali soluzioni?
Il centrosinistra dice ”rilancio della crescita”. Ma come si fa pensare che in un momento in cui c’è questa guerra in corso ci siano i margini economici per rilanciare il modello keynesiano, significa stare fuori dal contesto storico-economico, costruirsi un mondo secondo le proprie illusioni , che significano ingannare i lavoratori. La soluzione non è economica ma politica, questo sostengo nell’ultimo libro “Il risveglio dei maiali” , che vuole essere un manifesto politico per il non pagamento del debito , l’uscita dall’euro , le nazionalizzazioni. L’atto di nuova conflittualità da parte del movimento dei lavoratori deve essere di pari livello di quello formulato dal capitale. Riprendiamo un percorso di lotte che mettano al centro le rivendicazioni salariali, il lavoro vero a pieni diritti e pieno salario, la riforma fiscale, la tassazione incisiva di tutti i capitali; si al riformismo strutturale ma che dia le gambe, l’accumulazione di forze nuove, spazio al protagonismo dei soggetti sociali e del sindacalismo conflittuale di classe. Bisogna sedimentare le forze attraverso percorsi di lotta e di democrazia partecipativa e non pensare a ricette di vertice. Ridare fiato alle lotte di potere a partire da quelle di redistribuzione del reddito e poi della ricchezza sociale. Due fasi, prima la rivendicazione e la lotta, per cambiare l’agenda dettata dalle cosiddette regole dell’economia. E poi la creazione di una piattaforma politica forte per la costruzione di una nuova area fuori dall’euro, con al centro un modello solidale come l’area dell’ALBA in America Latina. Prima che loro decidano i buoni e i cattivi perché non mettere in moto un sistema eco-socio compatibile fuori dai dettami del FMI come hanno fatto nella Nuestra America i paesi dell’Alba.

Ma in America Latina sono partiti dalla conquista del potere…
Lì hanno rimesso in marcia milioni di lavoratori su lotte rivendicative, come la battaglia contro la privatizzazione dell’acqua, lotte che hanno creato l’humus politico per portare al potere formazioni di sinistra attraverso le elezioni. L’Fmi si comportava con loro come gli strozzini con i i debitori. E loro si sono sottratti a questo gioco creando un’area alternativa. Qui potremmo chiamarla Alleanza libera per l’interscambio alternativo e solidale (Alias), che adotta una nuova moneta Libera, cioè libera dai vincoli delkl’usura istituzionalizzata imposta dalla BCE.

Qual è lo schema?
Questa area si stacca dall’Euro con una moneta che ha il tasso di cambio flessibile misurata su un cambio che rappresenta un paniere misuratore della ricchezza reale dell’ insieme dei paesi partecipanti. In questo modo si svaluta automaticamente il debito non più misurato in l’euro. Il vantaggio è anche politico e consiste nel proporsi a livello internazionale come interlocutore politico ed economico dei paesi tipo l’Africa mediterranea e poi con i paesi dell’Est. Questa è una proposta che oggi circola nei movimenti internazionali, proposte vive e patrimonio delle lotte del Pame in Grecia e di tanti movimenti sociali e sindacali di classe in Europa. In Italia il ripudio del debito , le nazionalizzazioni sono parte del programma dei movimenti del 15 ottobre 2011.

Appunto, ripeto l’obiezione di prima, bisogna partire da una posizione istituzionale…
Per far questo occorre nazionalizzare le banche e i settori strategici. Venerdì sull’Unità un grande filosofo italiano Luciano Canfora metteva in evidenza proprio questo deficit di sovranità dell’Unione Europea. Le soluzioni non sono economiche ma politiche, ha risposto anche Canfora. ” I paesi dell’Europa Mediterranea devono avere il coraggio di uscire dall’euro”, aggiungeva, cioè quella stessa proposta politica prima che economica che noi proponiamo nel libro “Il risveglio dei maiali” .

Che ne pensi del dibattito sviluppato su sbilanciamo.info?
Comunque è in atto un processo di dissoluzione dell’euro. Dissoluzione che sta anche nei piani di Francia e Germania, dal quale i lavoratori devono difendersi contrattaccando , muovendo proposte che vadano al di là del singolo paese. Gnesutta ha ragione nel momento in cui si è parlato di uscita dall’euro del singolo paese. Ma la proposta nostra su Alias è quella di uscire come gruppo di paesi, con una nuova moneta , nazionalizzando in primis le banche e di attuare un blocco dei capitali in uscita e una tendenza al pareggio e poi al surplus nella bilancia dei pagamenti . Se non si parte da quello che ho detto, ovvero dalla centralità della politica e il suo dominio sull’economia, da una nuova stagione di protagonismo delle lotte del movimento di classe non si riuscirà a spuntarla.

Appello Freedom Flotilla

appello per l'immediato rilascio dell'europarlamentare Paul Murphy e degli altri attivisti della Freedom Flotilla detenuti in Israele da alcuni giorni. Paul Murphy nei mesi passati ha promosso con noi una campagna internazionale di solidarietà al Movimento NO TAV e ad agosto aveva partecoipato al campeggio internazionale tenutosi in Val di Susa. A questo appello si può aderire scrivendo a questa mail e indicando nome, cognome, eventuale organizzazione di appartenenzae carica ricoperta o condizione sociale. Attiveremo una raccolta firma anche su Facebook.
Per aderire all'appello clicca qui

All'ambasciatore di Israele a Roma
Signor Ambasciatore,
Protestiamo con forza contro la detenzione illegale di 21 attivisti della Freedom Flotilla, tra cui l’europarlamentare Paul Murphy. La Freedom Flotilla si stava recando a Gaza trasportando aiuti umanitari, incluse forniture medicinali. Il convoglio non aveva intenzione di fare ingresso in Israele. L’esercito israeliano ha di fatto sequestrato le imbarcazioni. Chiediamo l’immediato rilascio di tutti gli attivisti e la fine delle misure repressive da parte di Israele a partire dall’assedio di Gaza.
Nicoletta Dosio, Movimento NO TAV Val di Susa
Giorgio Cremaschi, Presidente Comitato Centrale FIOM CGIL
Marco Veruggio, Presidente Associazione ControCorrente
Modena City Ramblers
Alì Ghaderi, Responsabile Esteri Fedayn del Popolo Iraniano
Jacopo Venier, direttore LiberaTV

Appello Fincantieri



Repubblica, edizione di Genova, ha lanciato una raccolta firme a difesa del cantiere di Sestri Ponente. 
Per adesioni Cliccate qui

Accordo 28 giugno - articolo 8 - licenziamenti facili,THE DAY AFTER,Il diritto nella crisi e la democrazia in deroga

18 novembre ore 15.30
PALAZZO DELLA PROVINCIA DI ROMA
VIA IV NOVEMBRE - SALA DELLA PACE

Accordo 28 giugno - articolo 8 - licenziamenti facili
THE DAY AFTER
Il diritto nella crisi e la democrazia in deroga

Incontro seminariale promosso da
Forum Diritti/Lavoro
CON LA COLLABORAZIONE DI UNIONE SINDACALE DI BASE e RETE 28 APRILE NELLA CGIL

PRESIEDONO
FRANCO RUSSO (Forum Diritti/Lavoro)
FABRIZIO TOMASELLI (Esecutivo Nazionale USB)
MAURIZIO MARCELLI (Rete 28 Aprile)
INTRODUCE
CARLO GUGLIEMI (Presidente Forum Diritti/Lavoro)
INTERVENGONO
ARTURO SALERNI (avv. Forum Diritti/Lavoro)
RICCARDO FARANDA (avv. Forum Diritti/Lavoro)
GIOVANNI NACCARI (ass. Diritti Sociali e di Cittadinanza)
SERGIO MATTONE (Presidente emerito Corte di Cassazione)
GIANNI FERRARA (prof. emerito di diritto costituzionale ass. per la Democrazia Costituzionale)
PIERLUIGI PANICI (avv. Consulta legale FIOM)
PIERPAOLO LEONARDI (Esecutivo Nazionale USB)
GIORGIO CREMASCHI (Rete 28 Aprile)
TIZIANO RINALDINI (CGIL Emilia Romagna)
ANTONIO DI STASI (prof. associato di Diritto del lavoro
nell’Università di Ancona)
CON L'ADESIONE DEL COMITATO “NO DEBITO-PRIMO OTTOBRE”
Ulteriori informazioni

mercoledì 9 novembre 2011

Finestra sul vuoto: ovvero, la crisi dell’euro e la rotta della sinistra

 
Di Riccardo Belfiore
A metà luglio mi sono stati chiesti da Fausto Bertinotti e da Rossana Rossanda due articoli: uno sulle politiche europee dentro la crisi, l'altro sulla rotta d'Europa. Ho scritto a fine agosto un lungo testo, da cui poi ho "tagliato" con modifiche i due lavori: l'uno è comparso sui siti del manifesto e sbilanciamoci (e sul quotidiano), l'altro è in uscita su Alternative per il socialismo.
  1. L’Europa è nel mezzo di una tormenta economica e sociale. Intanto l’economia mondiale viaggia verso quella ricaduta nella recessione che è in realtà nient’altro che la prosecuzione di una medesima grave crisi strutturale del capitalismo: la Grande Recessione. Pur con tutte le contraddizioni del disegno istituzionale che ha dato vita all’euro, è la crisi globale all’origine della crisi europea. La crisi europea non fa che retroagire sulla dinamica mondiale. La costruzione dell’euro rischia intanto di implodere. Non era difficile da prevedere. Chiudendo, a novembre dell’anno scorso, un articolo con Joseph Halevi sull’International Journal of Political Economy, citavo una scena da Frankenstein Junior . “Freddy” Frankenstein scava con Igor una tomba per esumare il mostro, e commenta: “Che lavoro schifoso!” Igor replica: “Potrebbe andare peggio”. “Come?” commenta stupito Freddy. “Potrebbe piovere” è la risposta di Igor. Immediatamente tuoni e fulmini, e pioggia a dirotto. Da dicembre, in Europa e nel mondo, ha diluviato. La crisi greca, dalla periferia più debole del continente, passando per Irlanda e Portogallo, ha investito infine la Spagna. Come era atteso. A quel punto, istantaneamente, e con una accelerazione inattesa dai più, ha impattato pure sull’Italia, sino a lambire la Francia, e ora persino la stessa Germania. Una Germania che si sta bruscamente risvegliando dall’illusione di un parziale sganciamento dalla domanda europea: illusione che sola giustifica la sua linea suicida dal 2010. I ‘germogli di ripresa’ sono appassiti rapidamente, e il rimbalzo dopo la crisi è risultato alquanto sovrastimato. La Cina – l’unico paese che all’inizio del 2009 ha praticato una vera politica keynesiana di spesa pubblica massiccia e attiva - è a rischio di deragliamento. La sua crescita dipende da un eccesso di investimento infra-strutturale, e dal sospetto di una gigantesca bolla immobiliare. Il resto del mondo pretende di insegnarle che non si può andare avanti col sottoconsumo delle masse: anche qui però illudendosi che un eventuale aumento dei salari cinesi sia speso, e speso all’estero. L’America Latina rischia a sua volta di rallentare bruscamente: impaurita dall’inflazione; strangolata dall’aumento del cambio (nominale e reale); dipendente non solo dalla domanda estera, ma anche dalla evoluzione dei prezzi delle materie prime che può rivolgerlesi contro. L’idea che gli Stati Uniti transitino dal lato degli esportatori netti, con, di fatto, il solo continente sud-americano a fornire la domanda di ultima istanza, è chiaramente inconsistente. L’attesa ‘luce in fondo al tunnel’ si è rivelata nient’altro che un treno ad alta velocità che ci viene incontro. Più o meno negli stessi giorni, nella seconda metà di luglio, Rossana Rossanda e Fausto Bertinotti mi hanno chiesto un intervento. La prima sulla rótta d’Europa, il secondo sulle politiche europee contro la crisi. Dell’intervento di Rossanda un aspetto mi ha conquistato: l’ambiguità del titolo. ‘Rótta’ può significare direzione; ma anche sconfitta, sbaragliamento. Di questo stiamo parlando, per quel che riguarda la sinistra. Risponderò in modo inusuale, e che temo dispiacerà a entrambi. Discutendo cioè di qualcosa che mi pare assente nel dibattito sinora, in cui tanto si (ri)parla di crisi del ‘liberismo’ e di ‘fallimento’ dell’euro. Parlerò cioè di crisi della lotta di classe. Quella dal lato nostro. Dall’altro versante, si deve dire, la lotta di classe miete grandi successi. E parlerò, appunto, di crisi della politica. Di fallimento della sinistra c.d. di alternativa. Tutta: dei vari rivoli della sinistra politica, come delle varie correnti sindacali interne e esterne alla CGIL. La rótta che ci colpisce investe in primis la responsabilità di un quotidiano come il manifesto, di una sinistra alla deriva, di una intellettualità a corto di analisi e di idee. O si parte dalla coscienza che si è giunti ad un capolinea – e dunque che, più che necessaria, è ormai condizione di vita o di morte un’altra analisi, un’altra pratica conflittuale, un’altra proposta – o siamo morti che camminano. Quello aperto della Rossanda rischia di rivelarsi, se no, il solito dibattito estivo. Dal grande successo apparente, ma con scarse novità e nulla utilità. Mai o quasi si mettono i piedi nel piatto, in ciò che ho letto sinora almeno. L’eccezione più vistosa è Giuliano Amato, che almeno sa di cosa parla (e che ho letto quando questo scritto era già stato steso). La rivista di Bertinotti è un luogo di grande dignità culturale, dove però si chiedono a turno le opinioni dei vari ‘esperti’, tutti egualmente a rischio di indifferenza. La sinistra, superata la fase del dogmatismo e quella della frantumazione, ti accoglie in un ‘pluralismo’ che lascia a politici e sindacalisti mano del tutto libera, così come la libertà di improbabili sintesi. Bisognerebbe dialogare, dunque anche interloquire, persino dissentire: non fare finta di niente, in monologhi paralleli. E ahimé, nei panni dell’esperto pluralista non mi ci vedo proprio.
  2. Rossana Rossanda indirizza alcuni quesiti agli ‘amici economisti’, oltre che ai padri e padrini dell’UE. Non rientro nei secondi, ma ho avuto difficoltà – lo confesso - a riconoscermi nei primi. L’economia l’ho studiata perché non la capivo (forse, non la capisco ancora). Certo, mi spiazza un amico, ed economista, come Sergio Cesaratto quando chiude un articolo peraltro interessante, con non banali critiche alla sinistra, proponendo come forma di lotta … che gli studenti e le studentesse vadano ad ‘occupare le rappresentanze dell’Unione Europea in Italia con lezioni tenute dagli economisti critici’. Continuo per mio conto a pensare che si tratti di distruggere la scienza economica, a partire dal suo oggetto. Sono un compagno, non un amico. E per questo prendo le domande di Rossanda come domande a compagni, non ad amici. Darò risposte con uno stile un po’ ‘vetero’, come mi è stato rimproverato da compagni più maturi. Senza troppe diplomazie. Per cominciare. Come è che ad ora, con praticamente solo l’eccezione di Alberto Bagnai, la parola ‘classe’ nel dibattito sul manifesto compare sempre e solo se accompagnata all’aggettivo dirigente? Come è che, quando va bene, la politica di sinistra corrisponde a nient’altro che a un po’ di ‘keynesismo’ fuori tempo massimo e tanta, tanta nostalgia per una supposta benevola ‘età dell’oro’ del capitalismo (espressione che tutti, sbrigativamente, attribuiscono ad Hobsbawm: ma non è sua)? Il riferimento è ai trent’anni che (con una qualche ironia,credo) i francesi definiscono ‘gloriosi’, quelli dell’immediato secondo dopoguerra. Com’è che la critica dell’euro arriva così tardi, ed è in realtà piuttosto una critica a quelle due non-entità che sarebbero la ‘globalizzazione’ e ‘postfordismo’ su cui si esercita da quasi vent’anni il pensiero unico della sinistra? Per mio conto – ‘colpa’ anche di Rossanda, devo dire - ho mosso i primi passi sui discorsi dell’economia quando il manifesto hemingwaianamente proclamava (con Lucio Magri) “Breve la vita felice di John Maynard Keynes”. L’economia critica o è critica dell’economia politica o non è. Innanzi tutto, critica delle posizioni correnti. Poi analisi dei rapporti di classe e della fase. Infine, proposta di una alternativa. In qualche misura, disegno di un ‘programma minimo’. Un movimento che raggiunga una massa critica, e le proposte immediatamente politiche, non devono essere separati da quella critica, da quella analisi, e da quella proposta. Per dirla tutta, penso che sia stato, ieri, un catastrofico errore della sinistra di alternativa quello di non combattere a fondo la scelta di aderire all’euro a fine anni Novanta (come dirò, non in nome dello status quo: esistevano delle alternative). Penso anche che, oggi, sia sbagliato confidare nella virtù salvifica di una rottura della moneta unica. E’ comunque un triste paradosso lo spettacolo di una sinistra (intellettuale, sindacale, politica) che si riempie la bocca della parola ‘globalizzazione’, e non è in grado di ragionare di lotte che siano da subito europee, chiudendo il suo orizzonte pratico nello spazio ‘locale’, cioè nazionale.
  3. Si chiede Rossanda: non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? E come si ripara? La risposta che dà è la seguente. L’unificazione monetaria in Europa non sarebbe altro che la figlia legittima della fiducia hayekiana nella mano invisibile del mercato, nel ‘liberismo’ - qualcosa di cui francamente, non vedo gran traccia nella storia tutta del capitalismo, figuriamoci oggi. E’ questo che avrebbe retto i trent’anni ingloriosi che ci separano dalla svolta monetaristica. Le economie europee avrebbero dovuto ‘allinearsi’ a medio termine, grazie a quella politica monetaria deflazionistica che la BCE avrebbe praticato con continuità. Il problema sarebbe insomma la frattura con quella linea continua Roosevelt-Keynes-Beveridge che si sarebbe materializzata per un trentennio in un autentico ‘compromesso’ capitale-lavoro. Rossanda in verità scrive pudicamente ‘parti sociali’: e in questo discorso, si deve dire, non fa una grinza. E’ la vulgata ‘regolazionista’: pace sociale e sviluppo trainato dai consumi salariali come perno dello sviluppo postbellico. In Europa, la frattura seguirebbe il crollo del Muro di Berlino. E’ quello lo spartiacque che avrebbe prodotto il Trattato di Maastricht e l’istituzione dell’euro: con i partiti e sindacati di sinistra che ‘abbozzarono’, chi più chi meno colpevolmente. Ne discesero: liberalizzazione dei movimenti dei capitali, primato della finanza, fuga dall’economia reale, delocalizzazioni, indebolimento del lavoro. La bolla finanziaria scoppiata nel 2008 viene in fondo di qui, dalla finanza perversa e tossica. Ma anche se la lettura fosse un’altra, e cioè che fu la globalizzazione che produsse il crollo del Muro di Berlino e l’euro, non sarebbe ai miei occhi granché più convincente.
  4. Partiamo dallo sfondo storico e dalle dinamiche globali, per tornare poi all’Europa. Innanzi tutto, la concentrazione della discussione sull’Europa sembra aver fatto dimenticare che molte delle conseguenze negative sul lavoro, così come il primato della finanza sull’economia reale, hanno una lunga storia che risale almeno alla controrivoluzione reaganiana e thatcheriana, e prima ancora a Volcker – presidenza Carter, democratico. Sotterrava il keynesismo, è vero. Ma cosa era stato il ‘keynesismo’? I trent’anni seguiti al secondo conflitto mondiale tutto furono meno che un ‘compromesso’ tra capitale e lavoro, e tanto meno un’era di crescita capitalistica trainata dai consumi salariali. Tra l’altro, Keynes (ma anche Marx!), una cosa dovrebbe averci insegnato: il salario non traina la domanda, lo fa la domanda ‘autonoma’ – la domanda indipendente dal reddito. E’ vero che la distribuzione del reddito può incidere sul moltiplicatore. Come è vero che le lotte possono incidere sulle regole del gioco. Lo ricordava Kalecki nel 1971 (in Class Struggle and the Distribution of Classical Income). A condizione, però, che non si metta in questione il comando capitalistico nei luoghi di lavoro, come ancora insegna Kalecki, questa volta nel 1943 (Political Aspects of Full Employment). E il controllo sulla composizione della domanda e della produzione è un po’ più complicato di come se lo immaginano gli ‘amici economisti’. Nella c.d. golden age la domanda ‘autonoma’ crebbe in tutte le sue componenti: gli investimenti privati, la spesa pubblica (elevata ma in pareggio), le esportazioni vista la vigorosa ripresa del commercio mondiale. La ragione di ciò non è difficile da capire. La Grande Crisi e la Seconda Guerra Mondiale produssero una gigantesca ‘svalorizzazione’ di capitale e una potente iniezione di domanda pubblica in disavanzo, grazie a quel deficit spending che Roosevelt ritenne di poter accettare solo con l’entrata in guerra: mentre lo aveva rifiutato nel New Deal. C’era l’Unione Sovietica, e la fresca memoria degli effetti della disoccupazione di massa. Conservatori e democratici non potevano che optare per la ‘piena occupazione’. Prevalentemente maschile, e orientata ad una produzione accelerata di merci, distruttrice dunque della natura. Quando i diritti del lavoro e la crescita del salario reale (e in una certa fase, anche del salario relativo) vennero conquistati, essi furono strappati con la lotta, nient’affatto la conseguenza di un compromesso. Presto - per questa contraddizione tra le altre, ma per questa in modo cruciale - l’eccezione keynesiana si inabissò. Una ‘eccezione’, sottolineo. Non una ‘norma’ su cui sia possibile misurare il capitalismo. Tanto meno un ‘mito’ a cui voler tornare. E’ vero, la politica economica che ne seguì per qualche anno (pochi, in realtà: più ci penso, sempre meno!), nella prima fase del neoliberismo, corrispose allo stilema del ‘monetarismo’ come ci è tramandato ideologicamente a destra e a sinistra (solo che la sinistra ci crede davvero, mentre la destra se ne emancipa nella pratica). Politiche monetarie ferocemente restrittive, aumento dei tassi di interesse, crollo degli investimenti. Tentata riduzione dei disavanzi pubblici e riuscita compressione della spesa sociale. E, ovviamente, l’attacco al lavoro. La Grande Crisi si sarebbe dovuta ripetere, allora. Non fu così. E non è stato così dopo. Il perché si condensa in due nomi: Reagan e Greenspan. L’esplosione del doppio disavanzo negli Stati Uniti all’epoca del secondo Reagan fece da potente controtendenza politica alla stagnazione interna, ma anche da traino alla domanda estera. Si andava costituendo quel vero e proprio money manager capitalism di cui parla Minsky, quel vero e proprio regime di ‘keynesismo privatizzato’ (un termine impiegato da Colin Crouch, ma prima ancora da Halevi e chi scrive) su cui si è retta la seconda fase, più dinamica, del neoliberismo, e che ha avuto in Greenspan il suo profeta. Non è stato un capitalismo inquadrabile troppo facilmente dentro una visione stagnazionistica. Da dove scaturiva la domanda? Nel ‘nuovo capitalismo’ anglosassone veniva dal consumo a debito, e ciò era possibile grazie a quella vera e propria ‘sussunzione reale’ del mondo del lavoro alla finanza e al debito, di cui ho scritto altrove. In forma estremamente semplificata, si può descrivere così il processo. I fondi istituzionali (in primis, i fondi pensione) determinano una sempre più accelerata inflazione dei capital asset. L’aumentato valore di questi ultimi fa da ‘collaterale’ ad una nuova e prevalente forma di immissione nel circuito monetario: è ora la iniezione di moneta tramite il credito alle famiglie ad essere il punto di origine del finanziamento alle imprese. La politica monetaria deve farsi espansiva. La banca centrale, per dirla con De Cecco, si fa prestatore ‘di prima istanza’. I tassi di interesse si orientano sempre più alla riduzione. Ritorna persino il pieno impiego: ma è ora una piena sotto-occupazione di lavoratori precarizzati, con bassi salari, impotenti nei luoghi di lavoro. L’inflazione nel mercato dei beni non viene più dal ‘lavoro’, semmai dalle materie prime: e quando la banca centrale vi reagisce con l’aumento del costo del denaro rischia di far franare l’economia. E’ questo stesso meccanismo che ha tirato la domanda che si è rivolta ai ‘neomercantilismi’, forti e deboli: dalla Germania alla Cina, dal Giappone al Brasile, dall’Italia all’India. Altro che ‘liberismo’! Altro che finanza ‘perversa’! Si è trattato di un regime politico molto attivo. Potente nello stimolo alla domanda e alla produzione. Il che non toglie che sia stato anche un regime che ha visto la stagnazione in alcune sue aree: Europa e Giappone, le più rilevanti. L’instabilità che covava mascherandosi nel suo opposto durante la Grande Moderazione è poi emersa appieno nella Grande Recessione, prova della endogena ‘insostenibilità’ del nuovo capitalismo. E’ però la finanza tossica ad avere consentito la crescita ‘reale’ tanto della domanda quanto della produzione. L’accumulazione del capitale non è avvenuta a dispetto ma in forza del neofeudalesimo e della rendita pervasivi nel ‘nuovo capitalismo’.
  5. L’idea che il Trattato di Maastricht discenda dal crollo del socialismo reale, e che l’euro sia in continuità con quel Trattato è del tutto infondata. In realtà, il Trattato di Maastricht è figlio del progetto di Delors come si andò definendo dal 1988, e sta tutto dentro una Europa divisa dalla cortina di ferro. Era un progetto francese più che tedesco. Quello statunitense appariva allora il modello perdente di capitalismo: erano i capitalismi tedesco e giapponese (persino, nel mito, quello italiano dei distretti) ad essere in ascesa. La Francia voleva condividere il controllo sulla moneta, monopolio della Bundesbank, facendosi forte di una sua supremazia militare e politica nell’Europa divisa in due. Alla Germania occidentale doveva toccare il ruolo di cuore della manifattura di alta qualità; e (inizialmente, ma si ritrasse) alla Gran Bretagna il ruolo di centro della finanza. Fu semmai proprio il crollo del muro a far saltare quel disegno, mutando il dato politico, ma anche quello economico. La Germania, in prima battuta, non volle finanziare il costo della riunificazione con le imposte ma con afflussi di capitale. Si determinò così quell’aumento dei tassi di interesse che destabilizzò lo SME, e ne segnò la fine. A scanso di equivoci, la Germania, in seconda battuta, chiarì che non aveva alcuna intenzione di soccorrere gli altri paesi dell’accordo di cambio che si trovavano in difficoltà: in barba agli impegni di facciata, e appellandosi a protocolli segreti. Sperava in una espansione ad Est che dovette attendere un bel po’: visto anche il ruolo preminente degli Stati Uniti nella riedificazione del capitalismo in Russia, e nelle guerre nella ex-Jugoslavia. La domanda che ci si deve allora porre è tutta un’altra. Come mai l’unificazione monetaria europea decollò comunque, sia pure qualche anno dopo, a fine anni Novanta, e resuscitando come una Araba Fenice? Per trovare una risposta si deve abbandonare il dibattito corrente, e andare più in profondità. L’unificazione monetaria, nella forma in cui si fece, la si dovette non alla forza della Germania, ma alla sua debolezza di allora. La Germania avrebbe di gran lunga preferito una moneta unica ristrettissima, che comprendesse i suoi ‘satelliti’ e forse - un forse molto grosso, all’epoca - la Francia. Non sarebbe comunque bastato se non ci fosse stato il soccorso di una rinnovata vitalità dell’economia statunitense, con la sua capacità di trainare, con il consumo indebitato, una Europa sempre più presa – lei sì - da un vortice stagnazionistico. Alla Germania non restava che riproporre, in modo ancora più sfacciato e duro, il gioco che aveva condotto durante la preparazione del Trattato di Maastricht. Introdurre nell’architettura istituzionale di politica economica quanti più vincoli possibili. Vengono di qui, in particolare, i famigerati ‘parametri’. Non solo su inflazione e tassi di interesse, ma anche in merito alla finanza pubblica, con l’assurda pretesa di fissare tetti percentuali su disavanzo e debito pubblico di inesistente razionalità economica, ma di chiaro significato politico. Il secondo giro fu il Patto di Stabilità e Sviluppo di Dublino e Amsterdam. Il terzo giro, che si profila ora, è la costituzionalizzazione del pareggio del bilancio pubblico. Se però qualcuno credesse che sia stato il Patto di Stabilità ieri, o l’euro oggi, la ragione di fondo delle difficoltà europee, lo inviterei a ripensarci meglio. Il progetto di unificazione monetaria è stato per tutti, inclusi i piccoli paesi, l’alibi per poter imporre ‘con le mani legate’ quelle politiche di classe che comunque sarebbero state portate avanti. Il Patto di Stabilità è un vincolo spurio, dagli evidenti fini politici e sociali, che male si fa a prendere sul serio: invece di guardare i pupi, più produttivo guardare la finalità che muove i fili. Così come non è l’euro a determinare l’attacco al lavoro, o il passaggio dal welfare al workfare. E’ semmai l’opposto.
  6. Vero è che la costruzione dell’euro, agli inizi come alla fine degli anni Novanta, nasceva con un medesimo vizio di origine. La sinistra scelse di far finta di niente, e appose la sua firma all’introduzione di una moneta unica nel cui DNA erano, e restano, una permanente deriva recessiva, lo sventagliamento competitivo tra nazioni, la compressione dei salari, la crescita della diseguaglianza, lo smantellamento del sindacato e la ristrutturazione perpetua. Si potrebbe continuare. Di cosa si trattasse lo avevano già scritto nel 1992-93, con argomenti che reggono perfettamente anche oggi, Jean-Luc Gaffard su Le Monde Diplomatique (settembre 1992), e Paul Krugman in varie sedi. In un’area strutturalmente disomogenea come quella europea, con radicali disparità nella forza produttiva del lavoro e nelle infrastrutture materiali e immateriali, un progetto di convergenza nominale non può che dar luogo ad un progressivo approfondimento della divergenza reale. Quest’ultima può essere attutita, se non superata - si può cioè sterilizzare la intrinseca e progressiva tendenza alla frantumazione dell’unione monetaria – soltanto se si mette in piedi una politica fiscale comune, che presieda ad una redistribuzione di risorse tra le aree, e a politiche volte al superamento delle difformità reali. Il bilancio della spesa pubblica comunitaria sul PIL dell’area ha invece entità ridicola: come ha osservato Vittorio Valli qualche anno fa, grosso modo un decimo di quanto sarebbe necessario (e possibile). Torniamo dunque al quesito che ci siamo posti: come mai una costruzione così fragile è decollata a fine anni Novanta? Il calabrone ha volato. Per il successivo decennio l’euro lo si è potuto addirittura presentare come un successo e un modello? La risposta, a ben vedere, l’ho già abbozzata, e si tratta solo di integrarla. Sta nel (sia pure temporaneo) successo del nuovo capitalismo made in USA. Nella sua capacità di integrare la Cina e il resto dell’Asia, mentre l’America Latina e la Russia vivevano vicende alterne. La Germania, intanto, riprendeva sempre più fiato ma cresceva comunque meno della ‘periferia’. La bolla immobiliare si faceva strada in Europa. L’Irlanda e la Spagna (e non solo l’Inghilterra) crescevano rapidamente: per questo i loro bilanci pubblici erano ‘virtuosi’. Gli stessi disavanzi dello Stato di paesi come la Grecia o il Portogallo, o la gestione di un debito pubblico come quello italiano, in un mondo di bassi tassi di interesse, davano spazio a sostenuti investimenti finanziari delle banche tedesche o francesi. La dinamica a più velocità del continente europeo, che andava avanti almeno dall’immediato dopoguerra, ha una natura ormai nota nei suoi caratteri essenziali. Il suo asse è la crescita dell’area ‘forte’ attorno alla Germania. A tirare sono le esportazioni nette, e i conseguenti profitti vengono reinvestiti all’estero. Un modello Luxemburg-Kalecki, insomma. Con l’affermarsi del ‘nuovo capitalismo’ quegli investimenti si sono però andati rivolgendo sempre più alla finanza ‘tossica’. Non solo a quella di oltreoceano, si badi. Anche a quella interna all’Europa, dove i titoli di stato della periferia venivano a svolgere un ruolo analogo a quello dei subprime negli Stati Uniti. La Germania, come i suoi ‘satelliti’ e il resto del Nord-Europa, hanno storicamente bisogno di esportare nel resto dell’Europa. I disavanzi commerciali del Sud-Europa la aiutano anche perché rendono l’euro una valuta il cui cambio è nominalmente meno elevato di quanto sarebbe il marco, un euro più ristretto ai ‘satelliti’. La moneta unica dà inoltre luogo - grazie all’aumento della forza produttiva del lavoro e ad una dinamica salariale contenuta, e alla conseguente deflazione competitiva - ad una svalutazione reale di cui gode l’area forte. Dopo gli anni Novanta, anche nell’ultimo decennio la posizione neomercantilista dell’Europa si è continuata a ‘chiudere’ grazie al traino della locomotiva americana, benché questo divenisse sempre meno potente. Il fatto è che progressivamente le esportazioni nette europee negli Stati Uniti non sono però state più sufficienti a coprire il crescente disavanzo strutturale con la Cina, e a porre una toppa alla altalenante situazione di Russia e America Latina. In questo neoliberismo non liberista gli squilibri commerciali non hanno fatto gran problema. In generale, gli squilibri finanziari e commerciali che si riproducevano su scala allargata parevano magicamente rendere l’economia più stabile – ‘resiliente’ è l’aggettivo forse più appropriato. E’ stata chiamata la Grande Moderazione. La stessa preoccupazione per la finanza pubblica non pareva così urgente. In alcuni casi, anzi, dove non soccorreva la bolla immobiliare, erano proprio quei disavanzi a far da contrappeso alla tendenza recessiva originata dalla Germania e dal Nord-Europa. A ben vedere, il ‘dramma’ del debito pubblico non dovrebbe essere messo in scena nemmeno oggi. Le percentuali del disavanzo e del debito sono inferiori per l’Europa dell’euro rispetto agli Stati Uniti o al Giappone – non parliamo della Gran Bretagna. Come ha ricordato Krugman, se si fa una lista di quei paesi dove la finanza pubblica è stato un problema serio prima della crisi globale la lista si esaurisce a un solo nome: la Grecia.
  7. Come la domanda e la (poca) crescita, anche lo scoppio della crisi europea, e di rimbalzo l’esplosione del suo debito pubblico, sono state del tutto etero-determinate. Altro che endogena riedizione del 1992, come si favoleggiò a metà 2008. Se solo l’analisi economica della sinistra si fosse emancipata dalla morsa di letture obsolete come, da un lato, la caduta tendenziale del saggio di profitto (a causa di un aumento della composizione del capitale), dall’altro il sottoconsumo (a causa di un mondo dei bassi salari), avrebbe potuto intuire che il crollo del ‘keynesismo privatizzato’ (di cui si poteva discutere il quando, ma non il se) si sarebbe portato dietro l’Europa. A questo punto non poteva che mettersi in moto una dinamica autodistruttiva. Non che, sia chiaro, la BCE segua alla lettera le sue prescrizioni ‘monetariste’, né che le istituzioni europee siano inattive. Il problema è che quando operano nella direzione di un sostegno all’economia, o ai debiti pubblici, o quando si impegnano ad una modifica della architettura istituzionale della moneta unica, lo fanno del tutto reattivamente, sull’onda della crisi – si perde il conto delle misure a cui Angela Merkel si è fieramente opposta, e che ha poi accettato. L’idea che una istituzione di sostegno finanziario alle aree in crisi si farà, progressivamente, ‘per la forza delle cose’, così come che si metta in piedi una qualche forma di sia pur minima redistribuzione fiscale su scala continentale, non è affatto falsa, o fuori gioco. E’ che si agisce troppo tardi, facendo troppo poco. Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti il paradosso che se alla Grecia fosse stato condonato il debito, i costi per tutti sarebbero stati risibili. Il domino della crisi ha fatto passare il cerino all’Irlanda, poi al Portogallo. Anche in questo caso, una pura e semplice remissione del debito sarebbe stata risolutiva. Quando la crisi investe la Spagna, e poi l’Italia, la crisi cambia natura, il salto di quantità diventa un salto di qualità. A questo punto, o si impara a nuotare nella tempesta o si affoga. Sia detto tra parentesi, ma con forza: inutile prendersela questa volta con i ‘mercati’ o con le ‘agenzie di rating’. Hanno, almeno oggi, del tutto ragione. Registrano alla perfezione l’assenza di una qualsiasi regia politica che, sola, potrebbe garantire una via di uscita. E’ l’impotenza politica che alza progressivamente i tassi di interesse, e che rende a rischio di insolvenza un paese dopo l’altro (secondo un meccanismo che è stato ben chiarito da Paul de Grauwe). Le politiche economiche in tutta Europa, per la loro natura deflattiva, aggravano le cose perché abbattono i tassi di crescita. Per di più, ciò avviene proprio quando il resto del mondo o si ferma o rallenta. Non ci si può stupire che la sostenibilità del debito pubblico, invece di migliorare, peggiori. E’ una sorta di ‘paradosso del risparmio’ - se tutti vogliono aumentare la percentuale risparmiata, nessuno ci riuscirà, perché l’agire collettivo abbatte il reddito - applicato alla finanza pubblica. A complicare le cose c’è poi la particolare forma assunta dall’indipendenza della Banca Centrale in Europa, dove non c’è né sovranità politica dietro la moneta unica, né esplicita funzione di prestatore di ultima istanza, né volontà di finanziamento monetario dei disavanzi pubblici.
  8. La crisi in Europa non è scoppiata per colpa della Grecia. Il colpevole non è stato neanche l’indebitamento pubblico di un particolare paese, nel suo ammontare assoluto o in proporzione al PIL. Come ha osservato Jan Toporowski, quello che conta è la volontà o meno della banca centrale rilevante, qui quella europea, di rifinanziare i disavanzi dello Stato. Persino in un ipotetico euro ristretto alla Germania e ai suoi satelliti, la crisi sarebbe potuta scoppiare comunque. In Belgio, per esempio, che ha un disavanzo statale vicino al 100% del PIL. In un contesto di questo tipo, se il ‘fallimento’ viene escluso come soluzione, la via d’uscita sta nella alternativa, o nella combinazione, di inflazione e crescita. L’una e l’altra, infatti, aumentano il valore del denominatore nel rapporto tra disavanzo (o debito) pubblico e PIL nominale. L’inflazione è vista da molti come una peste. Questi molti saranno sempre di meno più la crisi andrà aggravandosi. Già da un po’ voci autorevoli come Kenneth Rogoff la auspicano. E’ mia convinzione che questa strada al momento non sia una opzione sul tappeto, nella misura adeguata (Rogoff la colloca attorno all’8%). E’ la crisi stessa a impedirlo, anche se si volesse imboccare questa strada. Imprese e famiglie non domandano credito, banche e istituzioni finanziarie sono restie a prestare all’economia reale. Siamo, come scrive Simon Johnson, in una economia a due velocità. Gli stimoli, prevalentemente monetari, fanno ripartire le bolle finanziarie, ma le bolle non fanno più crescere l’economia reale. Peggio: lo scoppio di quelle bolle riporta alla recessione, e rischia di aggravarla. Ci si può d’altra parte ben immaginare cosa significherebbe l’inflazione in un contesto privo di indicizzazioni del salario o del reddito. Per quel che riguarda la crescita, si è detto che sono le stesse politiche europee a sabotarla all’interno, per di più nel momento in cui l’impulso della domanda esterna va svanendo. In mancanza di inflazione e crescita, e se ci si intestardisce a rispettare la ‘santità dei contratti’ - se cioè si esclude la remissione del debito o una sua radicale ristrutturazione - resta allora solo la deflazione da debiti. Si potrebbe chiedere se non sarebbe meglio uscire dall’euro. L’evoluzione della situazione, prima o poi, potrebbe portare a una dissoluzione della moneta unica. Allo stato delle cose è però un consiglio della disperazione. Se ne è parlato soprattutto a proposito della Grecia. L’esempio positivo è l’Argentina nel 1992. Come ha osservato Toporowski, però, nel caso argentino il problema era innanzi tutto lo scoppio di una crisi bancaria, e poi quello di un indebitamento in valuta estera. Nel caso greco la crisi bancaria segue ad una crisi del debito pubblico, che è in valuta ‘interna’ – che dovrebbe essere tale: che non sia tale è una scelta politica. Si avrebbe un aumento dell’onere esterno sul debito, vista la conseguente pesante svalutazione. La praticabilità di una scelta del genere richiede inoltre una condizione assente ancora in Grecia, e cioè che si dia un avanzo stabile e consistente nel saldo primario del bilancio dello Stato: altrimenti, l’impossibilità di soddisfare anche il debito interno condurrebbe alla insolvenza del sistema bancario nazionale. Il deterioramento delle basi strutturali della competitività fa inoltre sì che lo sperato miglioramento della bilancia commerciale potrebbe rivelarsi molto lento, o mancare del tutto. Inevitabile, in ogni caso, un drastico peggioramento del salario reale. Basterebbe, in fondo, ricordarsi dello stesso caso italiano dei primi anni Novanta. Le condizioni di partenza erano tutto sommato migliori. Lo sprofondamento delle condizioni del lavoro - che fu gestito in larga misura da coalizioni di centro-sinistra: talora senza, ma talora con, la sinistra alleata - seguì esattamente l’uscita dallo SME. Nessuna panacea dunque, da quel lato. A partire dalla Grecia, la questione che abbiamo davanti non è nazionale e non è tecnica: è politica e sociale. Ed è europea. Una sinistra degna di questo nome dovrebbe affrontarla su questa scala: continentale.
  9. Prima di procedere, vale la pena fare un passo indietro. Esisteva una qualche alternativa alla costruzione della moneta unica nella forma dell’euro? E su che basi? Si è detto che le contraddizioni della moneta unica erano note, sin dall’inizio. Nell’articolo che ho già ricordato, di ormai quasi vent’anni fa, Les dangers d’une monnaie unique, Jean-Luc Gaffard, economista certo non marxista, sosteneva che si dovesse tener conto del c.d. ‘paradosso della produttività’. La necessità, cioè, di finanziare, prima, e di mettere in opera, poi, quel trasferimento delle risorse che darà vita ad una nuova produzione esito di nuove combinazioni. Il buon esito dell’investimento reale, privato o pubblico che sia, non può che essere successivo: ma non si darebbe senza quella previa condizione finanziaria, che comporta più credito ma anche più inflazione (compresa la variazione dei prezzi relativi). Se la si prende da questa prospettiva, una convergenza reale tra le economie europee avrebbe richiesto politiche specularmente opposte a quelle definite a Maastricht, e praticate successivamente: creazione di credito a sostegno dell’innovazione privata; crescita nel breve-medio periodo di disavanzi statali ‘produttivi’. Inizialmente, l’una e gli altri non possono che dar luogo a più elevata inflazione e ad un innalzamento del rapporto debito/PIL. L’aumento dei prezzi e lo ‘squilibrio’ fiscale saranno però riassorbiti dal successo di quelle misure e di quelle politiche. L’introduzione dell’euro non era poi l’unica via verso una unificazione monetaria. Una alternativa venne suggerita nella seconda metà degli anni Novanta da Suzanne de Brunhoff, sulla scorta del piano Keynes a Bretton Woods. Si trattava di introdurre non una ‘moneta unica’, circolante tra il pubblico, ma una ‘moneta comune’, ovvero una moneta di riserva per la regolazione dei saldi tra le banche centrali europee aderenti, dentro un accordo di cambi fissi. Fissi, ma aggiustabili: il che avrebbe lasciato spazio a modifiche delle parità nell’eventualità di disavanzi commerciali strutturali e significativi di alcuni paesi, con un impegno simmetrico da parte dei paesi in surplus alla riduzione dei loro avanzi. L’ultima condizione era mancata non soltanto allo SME ma anche all’accordo di Bretton Woods, che aveva perciò inscritto nel suo DNA una deriva deflazionistica. Il superamento degli squilibri ‘reali’ europei impone, ieri come oggi, un intervento che non sia esclusivamente dal lato della domanda, con la reflazione. E neppure dal solo lato del salario, in qualche modo agganciato alla produttività. Impone simultaneamente alla stabilizzazione finanziaria anche un forte intervento dallo stesso lato della offerta e della struttura produttiva. Non credo che sia granché produttivo inseguire le varie acrobazie di soluzione della crisi da parte dei governi europei, o le varie proposte alternative, fornendone una rassegna. Sulle prime, ha ragione Wolfgang Münchau sul Financial Times: sono tutte defunte, visto il decorso della crisi ‘estiva’. Le seconde sono troppo timide. Non è affatto nel torto chi addirittura contesta che tutto il debito sia legittimo, e vada pagato. La cosiddetta European financial stability facility, varie volte rifinanziata, è stata introdotta tardi, e sostenuta con poca convinzione. E’ soprattutto mancata, almeno sinora, una volontà autentica di abbattere i tassi di interesse e di ristrutturare il debito, in modo da allungare le scadenze, e di far pagare almeno in parte i creditori. Siamo però ormai oltre questo stadio: l’EFSF non è comunque in grado di affrontare il nodo spagnolo o italiano. E allo stato delle cose, cioè per il come è costruito, se lo facesse finirebbe con l’erodere la posizione dei vari paesi che contribuiscono al suo finanziamento, minando ulteriormente la stessa situazione fiscale degli stessi paesi più forti. Infine, se è vero che la BCE si è finalmente decisa ad istituire programmi sempre più estesi di acquisto dei titoli pubblici, ciò non ha ancora la caratteristica di un intervento strutturale e permanente. In assenza di una unione fiscale, la cui istituzione nel breve termine è utopica, rimane soltanto la strada degli eurobond, come strumento di una condivisione e comune garanzia su scala continentale. Ma, a parte la difficoltà di una sua rapida introduzione dal punto di vista formale (giuridico e politico, non solo tecnico) - accelerazione di cui si potrebbe fare carico un aggravamento drammatico della crisi - eurobond per fare cosa? Come ha osservato Yanis Varoufakis, si tratta di vedere negli eurobond qualcosa di più della possibilità di un finanziamento credibile a costi contenuti ai paesi in difficoltà. Devono essere pensati come il fondamento di una vera e propria espansione congiunta della spesa e degli investimenti, su scala europea. Un inedito New Deal che intervenga direttamente sui vincoli strutturali alla crescita, migliorando qualità del prodotto e innalzando la forza produttiva del lavoro. Strumento di una ‘riforma’, non solo di una ‘ripresa’.
  10. Quando Keynes scrive a Roosevelt, all’inizio del 1938, gli rimprovera di aver fatto prevalere le ragioni della ‘riforma’ strutturale su quelle della ‘ripresa’ dal lato della domanda. E per questo di avere, nel 1937, bloccato l’uscita dalla Grande Crisi, spaventato dal disavanzo di bilancio. Credo si debba uscire da questa dicotomia, e che si tratti di ‘agire’ la spesa pubblica, attiva e in disavanzo, dentro le politiche di ripresa. Questo, evidentemente, apre alla questione dei contenuti della ‘riforma’: della composizione, e non solo del livello, della spesa e della produzione. Su quella strada diviene chiaro che il problema che ci si squaderna davanti non è tanto la democrazia, come credono i partecipanti al dibattito, quanto puramente e semplicemente il capitalismo. Dagli anni Quaranta del secolo scorso il capitalismo ha sempre risolto, in modi diversissimi, il problema della domanda, o dei ‘bassi salari’ – non ha mai smesso, in questo senso, di essere ‘keynesiano’. Il sottoconsumo è la causa ultima delle crisi, ma non ne spiega nessuna. Così come, se solo Marx lo si leggesse davvero, la stessa caduta del saggio di profitto è l’altro lato dell’ascesa dell’accumulazione, non della sua crisi, che semmai è spiegata dalla flessione della massa dei profitti. La vera questione al fondo di questa crisi è che è crollato il meccanismo che sosteneva la domanda, il consumo ‘autonomo’ a debito del keynesismo privatizzato. Futile separare cause finanziarie e cause reali della crisi, o prendersela con la diseguaglianza. La crisi è globale: non è possibile, dunque, uscirne con la domanda estera. L’investimento ristagna: e anche nelle sue fasi dinamiche non è ormai in grado di chiudere il circuito economico compatibilmente con una accumulazione elevata. Un capitalismo trainato dai salari è un ossimoro. In queste condizioni il capitalismo ha una risposta. La risposta è: la crisi. Epperò – altro insegnamento di Marx - non esistono crisi permanenti. D’altra parte, le crisi strutturali come quella che viviamo sono crisi lunghe: e noi siamo appena alla metà del decorso di quella attuale, secondo le stime più prudenti. La loro funzione è di consentire la ripresa, svalorizzando il capitale. Nella crisi strutturale precedente la svalorizzazione del capitale costante venne impedita o rallentata. L’impatto della svalorizzazione si scaricò perciò, pressoché integralmente, sul salario e sul lavoro. Questa volta, benché questa strada venga intrapresa con ancora più forza, non è sufficiente: e non è ancora chiara la riarticolazione delle frazioni del capitale, né la nuova via sistemica d’uscita, da temere forse più della stessa crisi. Quello che è certo è che il capitalismo, passato dalla piena occupazione del keynesismo bastardo dell’ ‘età dell’oro’, alla disoccupazione ‘naturale’ di massa del monetarismo, alla piena occupazione precaria del keynesismo privatizzato, si avvia ora ad una lunga fase di transizione caratterizzata dalla piena disoccupazione del lavoro precario. Socialmente distruttiva, e preludio di una deriva reazionaria in forme inedite. Per quanto sia paradossale, nell’oblio della marxiana critica dell’economia politica così evidente in questi dibattiti estivi, che ci offrono solo una pallida riedizione del keynesismo, se si vuole intravedere qualche spunto per una alternativa vera bisogna rivolgersi a quel keynesismo strutturale che è esplicitamente critico del capitalismo e dello stesso keynesismo realizzato. Ricorderò qui alcuni pezzi dell’analisi recente di Alain Parguez, e di quella meno recente di Hyman P. Minsky, perché mi sembrano indicare uno spunto per una discussione più produttiva. Non esiste sviluppo che non sia fondato sul debito. I decenni più recenti ci hanno confermato che i disavanzi ex post dello Stato sono condizione della creazione netta di reddito per il settore privato. Solo che, ci ricorda Parguez, non dobbiamo scordarci che ci sono disavanzi ‘cattivi’ e disavanzi ‘buoni’. I disavanzi ‘cattivi’ – quelli appunto del monetarismo, prima, e dello stesso keynesismo privatizzato, poi – sono il risultato non pianificato del collasso delle economie, delle varie terapie shock, degli interventi deflazionistici, ma anche della stessa insostenibilità della finanza perversa. I disavanzi ‘buoni’ sono invece i disavanzi voluti, pianificati ex ante, il cui fine deve essere la costituzione di uno stock di risorse utili e produttive. Un ‘mezzo’ alla produzione di ricchezza e non di (plus)valore: un investimento di lungo termine in ricchezza tangibile (infrastrutture, riconversione ecologica, mobilità alternativa, etc.) e intangibile (salute, istruzione, ricerca, etc.). Dove le questioni del genere e della natura divengono cruciali: ma la stessa questione del welfare e di un reddito di esistenza rientra nel suo terreno proprio. Quello non della erogazione di sussidi monetari, ma di un intervento sui valore d’uso, parte di un più ampio orizzonte di un intervento di pianificazione. Ora, come ho sostenuto altrove, questo tipo di disavanzi ex ante - questa spesa pubblica attiva che non può che innalzare il rapporto debito pubblico/PIL - ha la caratteristica, per così dire, di ‘rientrare’ automaticamente. Un intervento del genere avrebbe evidentemente anche effetti ‘capitalisticamente’ positivi nella crisi, che sono quelli che abbacinano gli economisti postkeynesiani. Sosterrebbe l’economia reale dal lato della domanda, stabilizzerebbe il settore finanziario provvedendo attività finanziarie ‘sicure’, ma anche innalzerebbe la forza produttiva del lavoro e di sistema. Per questo può – deve - far parte di un ‘programma minimo’ di una sinistra di classe. Non ci si illuda, però: si configura così una situazione di ‘squilibrio’ più che un ‘modello’ stabile di capitalismo. Qui torna utile la riflessione di Minsky nel suo Keynes e l’instabilità del capitalismo del 1975. Minsky non è un certo rivoluzionario. Pure, la sua prospettiva è quella di una ‘socializzazione dell’investimento’, accoppiata ad una ‘socializzazione dell’occupazione’ e ad una ‘socializzazione della banca’. Nulla di strano, si dirà, non lo diceva anche Keynes che si doveva socializzare l’investimento? Non proprio. La Teoria Generale, scrive Minsky, è esplicitamente il prodotto dei ‘rossi’ anni Trenta, e lo stesso Keynes ne proclama le implicazioni conservatrici. Una volta raggiunto il pieno impiego, grazie anche ad un investimento privato sostenuto indirettamente dalla politica economica e dalle conseguenti aspettative favorevoli, non vi sarebbe ragione di pensare che il sistema esistente allochi in modo inaccettabile le risorse. Guarda un po’, il problema per Keynes è quello che pare ossessionare la nostra sinistra: pieno impiego e diseguaglianza. Questo Keynes non è mai bastato, certo non basta ora. La parola d’ordine ‘almeno Keynes’ si è sciolta come neve al sole delle sue contraddizioni. Il keynesismo realmente esistito nei Trenta Gloriosi che Minsky critica – non il mito che la sinistra si inventa - è quello dove tassazione e trasferimenti controllano il consumo, la politica monetaria regola l’investimento, la spesa pubblica è di spreco o militare, e viene incoraggiata la crescita della rendita e della finanza. Una strategia di ‘alti profitti, alti investimenti’; di ‘stimolo al consumo artificiale’; di ‘messa a rischio dell’ambiente biologico e sociale’. Un ‘socialismo per i ricchi’. Così Minsky. Dobbiamo tornare alla prima casella, sostiene. Al 1933. Ripensare un keynesismo del New Deal. Siamo alle domande di base: ‘per chi il gioco è fissato’; ‘quale è il tipo prodotto che si vuole’. Minsky dice di volere una società degli alti consumi, non degli alti investimenti. E’ chiaro che ciò che propone è piuttosto una società in cui il consumo è trainato dall’investimento pubblico, come motore della domanda autonoma e di un diverso sviluppo. Esplicitamente pretende la ‘socializzazione dei quartieri generali’, il consumo come dimensione ‘comune’, il controllo dei capitali, la regolazione della finanza, le banche come public utilities, e il loro drastico snellimento. Sostituire ad uno stato del (non-)benessere, fatto di una miriade di erogazioni in danaro, una spesa pubblica che accresca (e muti) le risorse, i beni e servizi reali: ‘in natura’, per così dire. In questa ottica, per Minsky come per Parguez, lo Stato deve provvedere ad una creazione ‘diretta’ di occupazione, stabile e strutturale. In fondo lo dicevano anche Ernesto Rossi e Paolo Sylos Labini.
  11. E’ evidente che si tratta di un discorso dimidiato. Manca il lato del lavoro, non come oggetto ‘passivo’ ma come soggetto ‘attivo’. C’è solo, in fondo, il lato di quella che con Halevi abbiamo chiamato tempo addietro una politica di ‘piano del lavoro’: un orientamento della politica economica al valore d’uso. Senza l’altro lato, il lato delle lotte del lavoro socializzato, non si va da nessuna parte. Ma come lamentarsene troppo, quando la sinistra si scorda entrambi i lati e recede alle spalle di un keynesismo radicalizzato? Quando si pensa di uscire da una crisi strutturale del capitale esercitandosi nei rattoppi o nelle elucubrazioni utopistiche, comunque senza soggetto di classe? Una risposta alla crisi dell’Europa sta tutta e solo dentro queste coordinate. Coordinate che richiedono una pratica politica e sindacale immediatamente europee. Il primo dovere della sinistra è - puramente e semplicemente - il rigetto senza ambiguità delle politiche di austerità. Avvitano in una spirale: aggravamento della crisi-ulteriore giro di vita fiscale. Non basta evidentemente: occorre mobilitarsi sulla richiesta che ci sia da parte delle istituzioni europee, e stato per stato, un sostegno dell’occupazione, un aumento del salario, una difesa del reddito e del welfare, una fiscalità progressiva e sui patrimoni. Senza cadere nella facile retorica contro il debito pubblico, che tanto seduce il manifesto. Resistendo all’equivoco della decrescita, va condotta con forza la battaglia per la sostituzione alla crescita quantitativa di matrice capitalistica, orientata al valore di scambio, di uno sviluppo qualitativo, il cui asse siano i valori d’uso di cui è fatta la ‘riproduzione’ sotto attacco a tutti i livelli. Condizione di tutto ciò, appunto, è una strategia di ‘socializzazione’ del livello e della composizione della produzione, di cosa e come produrre. Non mi illudo che questa coscienza sia diffusa. In fondo, spesso, quando va bene, ci si barcamena tra alternative protezionistiche, acrobazie salarialiste, proposte di basic income, e così via. O si affoga nella confusione del lavoro o della moneta definiti beni comuni. Se la natura della crisi è quella che si è detta in queste pagine, e dunque se questa è la sfida, vi è la necessità che si metta mano ad una sinistra di classe. Perché di questo c’è bisogno. La ‘sinistra alternativa’ è morta: prima ce ne si accorge meglio è. E altre, a ben vedere, non ne esistono. Quelle che si autoproclamano tali appaiono del tutto subalterne al social-liberismo. Unità contro la crisi fuori da questo orizzonte hanno clamore mediatico ma scarsa sostanza. Verso chi ha l’ardire di segnalare questi problemi la voglia di dibattito scompare. I loro interventi vengono tagliati in punti politicamente sensibili. Gli si dà degli accademici (Guido Viale). Li si zittisce, rei se no di intendenza col nemico (Loris Campetti). Se si provano a replicare, puramente e semplicemente li si censura (chi volesse leggere i materiali a cui facciamo riferimento può andare sulla pagina facebook economisti di classe). E dire che sarebbe stato così facile diffondere i materiali integrali on-line. Forse una discussione vera deve ancora cominciare.