di Alberto Stefanelli e Piero Maestri
Estratto Da http://www.guerrepace.org/spesamil/mil_home.html
I DATI DELLE SPESE BELLICHE
Per discutere l’argomento è prima di tutto necessario capire di quali cifre
stiamo parlando.
Secondo gli ultimi dati disponibili del Sipri, uno dei più autorevoli centri di
ricerca internazionali sulle armi, l’Italia ha speso nel 2010 circa 26,6
miliardi per la difesa militare – a fronte dei 20,3 miliardi dichiarati dal
ministero della difesa - posizionandosi ancora una volta al decimo posto
nella classifica dei paesi che maggiormente spendono per i loro eserciti. Ma
non si tratta di un’eccezione; sempre leggendo i dati
Sipri l'Italia del nuovo millennio ha
speso in media ogni anno circa 25 miliardi di euro per le spese militari. Molti
di più di quanto dichiarato ufficialmente.
Per il 2012 il bilancio della Difesa è pari (con l'approvazione del bilancio
dello Stato il 12/11/2011) a 19.962 milioni di euro suddivisi in 14,1
miliardi per esercito, marina e aeronautica e 5,8 miliardi per i Carabinieri. A
questi numeri va aggiunto che nello stato di previsione del ministero
dell'Economia è presente il fondo per le missioni internazionali di pace,
incrementato con 700 milioni di euro dalla Legge di stabilità, raddoppiati poi
dalla manovra Monti. Lo stato di previsione del ministero dello Sviluppo
Economico comprende poi 1.538,6 milioni di euro per interventi agevolativi per
il settore aeronautico e 135 milioni di euro per lo sviluppo e l'acquisizione
delle unità navali della classe Fremm. La Legge di Stabilità proroga al 31
dicembre 2012 l'utilizzo
di personale delle Forze armate per le operazioni di controllo del territorio
per una spesa complessiva di 72,8 milioni di euro.
Si arriva così a una spesa complessiva - verificata - di oltre 23 miliardi di
euro,
come
riportato da il manifesto.
UN BILANCIO PER LE GUERRE
Ma a cosa servono queste spese? Lo ripetiamo, questo è l’argomento centrale.
Non si tratta solo dell’inutile aereo F35, un aereo da attacco dalle
caratteristiche tecniche tali che lo rendono adatto ad una guerra contro altre
superpotenze militari; questi soldi vengono bruciati anche per mantenere un
carrozzone di 180.000 uomini (e donne) in cui, come rileva il rapporto di
Sbilanciamoci 2012, i graduati (in aumento) sono più della truppa (in
diminuzione) e i generali sono in proporzione più di quelli statunitensi. Una
struttura con molti marescialli in soprannumero e magari inadatti,
anagraficamente, alle nuove necessità operative.
La questione va molto oltre.
L’Italia, tra i membri fondatori, partecipa da sempre a pieno titolo alle
attività della Nato. Il contributo economico diretto all’Alleanza Atlantica
piazza l’Italia al 5° posto tra i paesi finanziatori (nel 2007 è stato di 138
milioni di euro su un totale di 1.874,5 milioni di euro, pari al 7,4% dei
contributi totali versati dagli alleati) collocandola subito dopo Usa, Regno
Unito, Germania e Francia.
Per adeguarsi ai requisiti della Nato l’Italia ha dato vita già da tempo ad un
ampio programma di riarmo, attualmente in atto, che si traduce nell’acquisto di
121 caccia Eurofighter per un costo totale di 18 miliardi di euro, 6 miliardi
per elicotteri da attacco e da trasporto, più di 7 miliardi per 12 fregate, 1,4
miliardi per la nuova portaerei, 1,9 miliaardi per 4 sommergibili, 1,5 miliardi
per 249 blindati. Più ovviamente obici, siluri, missili, radar e tutto quanto
serve per operare in guerra fuori dal territorio nazionale.
Mezzi che non sono solo risorse sprecate ma che fanno danni quando vengono
impiegati per le guerre della Nato. Se negli ultimi anni le truppe impegnate
all’estero si aggiravano tra gli 8000/8500 uomini, più della metà sono stati
impegnati in missioni Nato (l’Italia è il 4° paese per contributi alle
operazioni a guida Nato).
Tra queste non ultimo l’Afghanistan, dove l’Italia è presente con circa 4.000
soldati (3.918 a
inizio settembre) con armamenti e attrezzature al seguito, che sono costati nel
2011 più di 800 milioni di euro, che porta il totale per i dieci anni di
permanenza al seguito dell’alleato statunitense a circa 3,5 miliardi di euro
(mentre il totale dei fondi destinati alle missioni militari nazionali dal 2001
si aggira sui 13 miliardi di euro).
In questo ambito l’Italia si occupa anche di quella che, nella divisione
internazionale del lavoro militare all’interno della Nato, viene riconosciuta
come un’eccellenza italiana, cioè la gestione dell’ordine pubblico attraverso
le forze di polizia ad ordinamento militare. Questo attraverso due “centri”
collocati a Vicenza e gestiti dall’Arma di Carabinieri: il Comando della
Gendarmeria Europea, una forza di pronto intervento formata da diverse polizie
militari europee pronta ad intervenire in missioni di “pace” a supporto degli
eserciti nelle fasi di occupazione dopo la guerra. E il CoESPU, una scuola di
polizia per forze armate del terzo mondo dove viene formato personale per le
varie missioni di pace. Non per niente i carabinieri protagonisti di Genova
2001 venivano dalle guerre della Somalia e del Kossovo e oggi gli Alpini
passano direttamente dall’Afghanistan alla Val di Susa
Soprattutto di questo dovremo discutere quando parliamo di spesa militare. In
questo quadro crediamo sia quindi indispensabile chiedere una riduzione delle
spese militari non solo e non principalmente in funzione di eliminare sprechi,
spese inutili, o privilegi di casta. Questo è certo necessario ma non
sufficiente a definire una diversa politica della difesa improntata alla pace e
non più alla guerra.
Già nei precedenti governi di centrosinistra e centrodestra che hanno preceduto
l’attuale era ben presente l’insostenibilità economica dell’apparato militare.
Pur senza arrivare a nulla di fatto e senza avviare una discussione pubblica,
questi governi hanno cercato di operare per arrivare a “forze armate ancora più
efficaci e adeguate ai nuovi compiti, razionalizzando i costi, adeguando le
risorse e ammodernando la concezione stessa di Forze Armate”, come ha affermato
La Russa nell’aprile 2009; o come si era espresso prima di lui il
sottosegretario alla difesa Forcieri nel settembre 2006 arrivando a delineare
uno strumento militare con meno marescialli e con più strumenti per le missioni
militari.
IL DEBITO PUBBLICO E LE SPESE MILITARI
L'enorme debito pubblico italiano, come quello degli altri paesi europei, è il
risultato delle scelte politiche neoliberiste - come gli articoli pubblicati
sul sito
www.rivoltaildebito.org
hanno già più volte mostrato.
Per l'argomento che trattiamo ci sembrano due le questioni connesse: da una
parte l'aumento del budget della difesa, malgrado la riduzione di altri
capitoli di bilancio, come conseguenza di un rilancio dell'uso della forza
militare come strumento connesso alla presenza economico-politica
internazionale (come già recitava il Nuovo modello di difesa del 1991);
dall'altra il sostegno pubblico all'industria bellica, in particolare alla
galassia di Finmeccanica.
Come dicevamo, questa non è una caratteristica solamente italiana. La Grecia,
pur in bancarotta, ha continuato a destinare il 3,2% del Pil alle spese
militari (oltre dieci miliardi di dollari l'anno).
L'Italia, come abbiamo visto, non è da meno, e con un debito pubblico di
oltre 1900 miliardi di euro continua ad avere il bilancio militare di cui
abbiamo parlato - che ci ha fatto spendere negli ultimi 10 anni più di 200
miliardi di euro per la guerra secondo i dati ufficiali, ma ben 280 miliardi
secondo il Sipri.
E' chiaro che questa forte spesa militare ha contribuito al deficit pubblico e
che il bilancio della difesa ha subito tagli decisamente ridicoli o
inesistenti, ancora più scandalosi se confrontati con quelli subiti dai servizi
pubblici.
L'altro elemento è quello del sostegno pubblico mascherato all'industria
bellica. L'industria militare è per sua natura un settore che dipende dalla
commesse pubbliche, e anche se in questi ultimi 20 anni si sono susseguiti
accordi internazionali, acquisizioni, joint-venturs, una società come
Finmeccanica non potrebbe sviluppare il settore militare senza forti commesse
pubbliche e senza un sostegno diretto e indiretto alle proprie produzioni.
Questo è quanto avvenuto, nello stesso periodo in cui entra in crisi la
produzione civile di Fincantieri e la stessa Finmeccanica è in procinto di
dismettere completamente la produzione di treni (vedi l'articolo di Marco
Panaro (
Meno treni e
più armi. La death economy di Finmeccanica).
Il sostegno a questa impresa a capitale prevalentemente pubblico si è
intrecciata nel nostro paese alle politiche di dismissioni industriali, agli
scandali legati alla «cricca-economy» e in generale al legame tra politiche
neoliberiste e guerre.
Un legame che viene messo in luce persino da un uomo come Innocenzo Cipolletta,
già direttore di Confindustria e autore del libro «Banchieri, politici e
militari» (Ed. Laterza), che in un convegno a Trento ha affermato: «Non si può
comprendere la crisi del petrolio del 1974 senza la guerra del Vietnam e le
tensioni in Medio Oriente. Analogamente la bolla finanziaria del 2008 è
intimamente legata alle modalità con cui si è entrati in guerra contro il
terrorismo internazionale. Il debito infatti si ingigantisce, e come
nell'Antica Roma, chi è debitore è schiavo: in questo caso noi siamo schiavi
dei mercati finanziari (le misure della BCE per esempio) che ci dicono come
comportarci e quali correttivi introdurre, perdendo così la nostra sovranità».
Su questi legami crisi-guerre-spese belliche-debito vogliamo tornarci
prossimamente.
UN ALTRO MODELLO PER LA “DIFESA”
Arriviamo allora al punto che più ci interessa. Le spese militari italiane (ed
europee) vanno drasticamente ridotte come conseguenza di una scelta politica
precisa: non vogliamo più un modello di “difesa” pensato e strutturato
per fare la guerra. Sia che si tratti di quello attuale con sprechi, privilegi
e spese inutili; sia che si tratti di quello più “efficace” nel fare le
guerre che vorrebbero il ministro Di Paola o il gen. Roberta Pinotti (e La
Russa, prima di lei).
Non vogliamo più la partecipazione italiana alle guerre illegittime e alle
missioni militari della Nato; vogliamo che l’Italia esca dalla Nato e questa
“obsoleta” alleanza militare venga sciolta – o comunque che l’Europa scelga una
postura internazionale pacifica e di cooperazione e co-sviluppo con il
Mediterraneo, l’Asia, l’America latina e l’Africa.
È sulla base di queste scelte politiche che affrontiamo il nodo del taglio alle
spese militari.
Non per arrivare a forze armate più pronte ed efficenti nel partecipare alle
guerre della Nato, ma per un diverso modello di difesa.
Un modello di difesa che tenga conto che con l’equivalente di 15 giorni di
guerra Emergency ha realizzato in Afghanistan tre centri chirurgici, 28
ambulatori e un centro di maternità e che l’intero programma di Emergency in
Afghanistan si mantiene con l’equivalente di due giorni di presenza militare
italiana.
Un modello di difesa che tenga conto, come ci ricordano i dati della campagna
Sbilanciamoci, che con la stessa somma impiegata in dieci anni di missioni
militari si potrebbero costruire, ad esempio, 3.000 nuovi asili nido che
servirebbero un’utenza di 90.000 bambini, creando 20.000 posti di lavoro;
inoltre installare 10 milioni di pannelli solari per 300.000 famiglie con la
relativa creazione di 80.000 posti di lavoro e infine, sempre con la stessa
cifra, mettere in sicurezza 1.000 scuole di cui beneficerebbero 380.000
studenti creando così altri 15.000 posti di lavoro
Un modello di difesa che tenga conto del peso delle armi sullo sviluppo
economico nazionale, come ci ricorda la
ricerca
della Brown University (Usa) che mostra come per ogni milione di dollari
investito nel settore armi si creano 8 posti di lavoro, gli stessi posti che si
otterrebbero con lo stesso investimento in programmi di sviluppo legati
all’energia rinnovabile (solare, eolico, biomasse). Che però diventerebbero 14
con lo stesso investimento nell’assistenza sanitaria, nel trasporto pubblico o
nelle ferrovie; e che sarebbero 15 se l’investimento avvenisse nel sistema
educativo pubblico e
soltanto 12 se investito nella climatizzazione
delle abitazioni.
Si può naturalmente partire dalla cancellazione dei programmi più
scopertamente vergognosi e scandalosi – come quello che riguarda gli F35 –
come, appunto, punto di partenza di una consapevolezza di una necessaria
riconversione delle politiche e del sistema militare-industriale – non come
strumento di razionalizzazione delle spese stesse, cercando pure il consenso in
tempi di crisi e di ristrettezze di bilancio.
Tra l'altro, come hanno
dimostrato più volte
la rivista «Alteconomia» e il suo redattore Francesco Vignarca, non è prevista
alcuna penale per l'uscita da quel programma - e gli stessi Usa stanno
profondamente rivedendolo.
NON PAGARE IL DEBITO, TAGLIARE LE SPESE MILITARI
In questo senso l’approccio è analogo a quello della campagna “Rivolta il
debito”: il problema non è più principalmente “chi deve pagare il debito”, ma
la consapevolezza che il debito pubblico che si è formato in Italia (come nel
resto d'Europa) è in gran parte illegittimo e per questo non deve essere pagato
affatto.
Lo stesso vale per il bilancio della difesa: va drasticamente tagliato perché
si può e si deve fare a meno dello strumento delle forze armate come concepito
dal “pensiero unico della difesa” che ha visto sempre concordi le forze
politiche da An al Pd (con brutti scivoloni anche di Prc e dintorni...).
E una parte del debito pubblico si è formato anche per permettere di tenere
alte le spese della difesa, come chiedevano la Nato e gli Usa: interessante al
proposito uno studio del 1999 del Government Accountabilty Office del Congresso
statunitense (
Nato:
implications of European Integration for Allies’defense spending) che sosteneva:
«Essendo le spese per la difesa una porzione relativamente piccola del bilancio
dello stato, dovrebbero essere facilmente protette dai tagli. Comunque, anche
se il sostegno per i tagli alla difesa è minimo, potrebbe diventare un
obiettivo attrattivo: la pressione per ulteriori aumenti per le pensioni e la
sanità dovute all'invecchiamento della popolazione metteranno a rischi i
bilanci futuri in molti paesi europei. Una forte crescita economica è
chiaramente la chiave per fornire ai governi la flessibilità necessaria a
equilibrare bisogni e risorse». La storia di questi anni ci racconta come è
andata: la crescita è stata debole, la spese per pensioni e sanità è
diminuita e le spese militari sono aumentate - per la gioia dei nostri
«alleati» statunitensi - e intanto aumentava il debito pubblico.
La campagna contro il pagamento del debito e quella contro le spese militari
sono profondamente connesse; per questo una parte dell’audit dei cittadini sul
debito pubblico dovrà riguardare le spese militari come forma specifica di
illegittimità della destinazione dei fondi con cui si è formato il debito
pubblico.