giovedì 29 settembre 2011

Il diritto al default come contropotere finanziario


 
Il diritto al default come contropotere finanziario
Andrea Fumagalli Collettivo UniNomade, Università di Pavia  -  
Manifesto 1 settembre 2011

In queste settimane di crisi finanziaria e di pressione speculativa sui paesi mediterranei, l’Europa non ha fatto una bella figura. E non poteva essere altrimenti, dal momento che la costruzione di un’Europa politica, economica e sociale è ancora lungi dall’essere raggiunta. Al momento, siamo di fronte solo all’unione monetaria europea, che è cosa diversa dall’Europa. I poteri sono in mano alla Bce, non ad un parlamento regolarmente eletto a suffragio universale in grado di legiferare con poteri superiori a quelli nazionali. E, infatti, è la Bce che detta legge, tramite l’oligarchia dei poteri forti oggi rappresentati dall’asse Merkel – Sarkozy (un neo Berlusconi in salsa oltralpe!).
Eppure, ci potrebbero essere gli spazi per creare le premesse della costruzione di quell’Unione europea, sociale, economica, solidale e federale che tutti auspichiamo, in grado di essere superiore agli opportunismi nazionalistici. Un’ Unione europea che è del tutto antitetica a quella che viene rappresentata dalla lettera “segreta” o “confidenziale” di Trichet e Draghi al governo italiano, nella quale vengono dettate le linee di politica economica che l’Italia dovrebbe seguire se vuole ottenere un aiuto per evitare il rischio di default e l’aumento degli oneri d’interesse.
Il diktat della Bce si basa su due false ma comode convenzioni, che derivano dal dogma neo e social-liberista: a. neutralità dei mercati finanziari e fiducia nel loro ruolo di arbitro imparziale dell’efficienza del libero mercato e b. la possibilità che politiche fiscali recessive del tipo lacrime-sangue possano raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio pubblico e quindi contrastare la speculazione.

La favola dei mercati finanziari concorrenziali, imparziali e neutri.
Il biopotere dei mercati finanziari si è grandemente accresciuto con la finanziarizzazione dell’economia. Se il Prodotto interno lordo del mondo intero nel 2010 è stato di 74 mila miliardi di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95 mila miliardi di dollari, le borse di tutto il mondo 50 mila miliardi, i derivati 466 mila miliardi. Tutti insieme (al netto delle attività sul mercato delle valute e del credito), questi mercati muovono un ammontare di ricchezza otto volte più grande di quella prodotta in termini reali: industrie, agricoltura, servizi. Tutto ciò è noto, ma ciò che spesso si dimentica di rilevare è che tale processo, oltre a spostare il centro della valorizzazione e dell’accumulazione capitalistica dalla produzione materiale a quella immateriale e dello sfruttamento dal solo lavoro manuale anche a quello cognitivo, ha dato origine ad una nuova “accumulazione originaria”, che, come tutte le accumulazioni originarie, è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione.
Per quanto riguarda il settore bancario, i dati della Federal Reserve ci dicono che dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11.500 fusioni, circa una media di 440 all’anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a meno di 7.500. Al I° trimestre 2011, cinque Sim (Società di Intermediazione Mobiliare e divisioni bancarie: J.P Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e cinque banche (Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Parisbas) hanno raggiunto il controllo di oltre il 90% del totale dei titoli derivati (fonte: http://www.occ.treas.gov/topics/capital-markets/financial-markets/trading/derivatives/dq111.pdf).
Nel mercato azionario, le strategie di fusione e acquisizione hanno ridotto in modo consistente il numero delle società quotate. Ad oggi, le prime 10 società con maggiore capitalizzazione di borsa, pari allo 0,12% delle 7.800 società registrate, detengono il 41% del valore totale, il 47% del totale dei ricavi e il 55% delle plusvalenze registrate. In tale processo di concentrazione, il ruolo principale è detenuto dagli investitori istituzionali (termine con il quale si indicano tutti quegli operatori finanziari – da Sim, a banche, a assicurazioni,– che gestiscono per conto terzi gli investimenti finanziari: sono oggi coloro che negli anni ’30 Keynes definiva gli “speculatori di professione”) . Oggi, sempre secondo i dati della Federal Reserve, gli investitori istituzionali trattano titoli per un valore nominale pari a 39 miliardi, il 68,4% del totale, con un incremento di 20 volte rispetto a venti anni fa. Inoltre, tale quota è aumentata nell’ultimo anno, grazie alla diffusione dei titoli di debito sovrano (mai nome è più mistificatorio nell’epoca della crisi della sovranità nazionale!). Ad esempio, per quanto riguarda il debito pubblico, italiano, circa l’87% è detenuto da investitori istituzionali, per oltre il 60% all’estero (a differenza di quanto avviene in Giappone).
Da questi dati, possiamo arguire che in realtà i mercati finanziari non sono qualcosa di imparziale e neutrale, ma sono espressione di una precisa gerarchia: lungi dall’essere concorrenziali, essi si confermano come fortemente concentrati: una piramide, che vede, al vertice, pochi operatori finanziari in grado di controllare oltre il 70% dei flussi finanziari globali e, alla base, una miriade di piccoli risparmiatori che svolgono una funzione meramente passiva. Tale struttura di mercato consente che poche società (in particolare le dieci, tra Sim e banche, citate in precedenza) siano in grado di indirizzare e condizionare le dinamiche di mercato. Le società di rating (spesso colluse con le stesse società finanziarie), inoltre, ratificano, in modo strumentale, le decisioni oligarchiche che di volta in volta vengono prese.
Quando si leggono affermazioni del tipo “sono i mercati a chiederlo”, “è il giudizio dei mercati” e amenità del genere, dobbiamo renderci conti che tali cosiddetti mercati, presentati ideologicamente come entità metafisica, non sono altro che espressione di una precisa gerarchia e potere. E la Bce lo sa bene.

La farsa del pareggio di bilancio
Il deficit pubblico è costituito da due componenti: il disavanzo o avanzo primario, pari alla differenza tra il totale delle spese e il totale delle entrate dello Stato (al netto degli interessi) e le spese per interessi sui titoli di stato emessi negli anni precedenti. Le leggi finanziarie possono intervenire solo sull’avanzo o del disavanzo primario, non sulle spese per interessi. In seguito all’adozione di misure draconiane, si può creare anche un avanzo primario, ma se in contemporanea aumenta l’onere del debito e quindi la spesa per interessi, lo sforzo per ridurre il deficit di bilancio può essere del tutto vanificato. Ed è proprio questo ciò che è successo e sta succedendo oggi in Europa per i paesi Piigs. Al momento attuale, in seguito ai vari declassamenti che le agenzie di rating hanno inflitto ai titoli di stato, il divario (spread) con i bond tedeschi (quelli considerati più affidabili) è fortemente aumentato. Di fatto, al di là delle validità e affidabilità o meno delle manovre draconiane, l’ultima parola spetta sempre, come si confà al moderno capitalismo, al biopotere dei mercati finanziari.
In secondo luogo, occorre ricordare che ogni politica fiscale restrittiva ha come conseguenza immediata la contrazione del Pil. E’ cosi possibile che l’effetto negativo di tali cure sul Pil sia maggiore dell’effetto positivo di riduzione del deficit, con il risultato che l’obiettivo di ridurre il rapporto deficit/Pil non possa mai venir conseguito. E’ il classico caso in cui la cura è talmente forte da ammazzare il paziente, utilizzando una nota metafora di Keynes. Tale rischio è tanto più elevato tanto più la politica fiscale restrittiva avviene all’indomani di una fase recessiva così pesante come quella del 2009. Ed è veramente ipocrita che gli economisti che fino a ieri chiedevano a gran voce tali misure restrittive oggi paventino il rischio della doppia recessione.
Non è necessario essere esperti di economia per capire che difficilmente tali manovre di politica economica potranno avere successo. Al contrario, il rischio è che la situazione si avviti in una spirale viziosa senza uscita con la necessità ogni anno di adottare politiche fiscali ancor più recessive.
I grandi investitori istituzionali sanno perfettamente tutto ciò. Il raggiungimento del bilancio in pareggio dell’Italia o degli altri paesi europei non interessa. Ciò che a loro interessa è, in primo luogo, che lo spazio per la speculazione finanziaria rimanga sempre aperto e in secondo luogo che nuova liquidità venga continuamente e costantemente iniettata nel circuito dei mercati finanziari, al fine di accrescere la solvibilità delle transazioni. Infine, in terzo luogo, si vuole che venga garantito il pagamento delle tranches di interessi. La Bce mente sapendo di mentire.

Contro il potere finanziario: diritto al default
La speculazione finanziaria è un meccanismo che nulla ha di parassitario, anzi. Da quando non sono più in vigore gli accordi di Bretton Woods, il potere finanziario stabilisce in modo autonomo e sovranazionale il valore della moneta, sulla base delle gerarchie e delle aspettative che gli speculatori istituzionali di volta in volta definiscono. La pervasività dei mercati finanziari sulla vita economica e sociale degli abitanti della terra (dai contadini del Sud del mondo, agli operai e ai precari dell’Est e dell’Ovest del mondo, dagli studenti ai migranti) è tale che l’accesso a porzioni (sempre più decrescenti) di ricchezza sia condizionato direttamente e indirettamente dagli effetti distributivi e distorsivi che gli stessi mercati finanziari generano. Qui sta il loro biopotere e la loro governance. Ogni euro di plusvalenza generata virtualmente nell’attività speculativa ha effetti reali sull’economia per circa un 30% (secondo i dati della Bri), mettendo in moto un moltiplicatore finanziario che incide direttamente sulle capacità di investimento e di distribuzione del reddito che stanno alla base dell’attuale processo di accumulazione. Tale 30% di fatto è creazione netta di moneta, al di fuori di qualsiasi forma di signoraggio statuale oggi esistente. La produzione di moneta a mezzo di moneta implica una ridefinizione della legge del valore-lavoro e nuove regole di sfruttamento (cfr http://www.ephemeraweb.org/journal/10-3/10-3index.htm) ed è per questo potere che i mercati finanziari sono oggi il centro della valorizzazione.
A fronte di questo contesto, è necessario operare per restringere il campo d’azione dei mercati finanziari: non tramite l’illusione di una loro riforma, ma tramite la costituzione di un contropotere, in grado di erodere la loro efficacia. E’ necessario rompere il circuito della speculazione finanziaria andando a colpire la fonte del loro guadagno, ovvero favorendo la completa svalutazione dei titoli sovrani che sono di volta in volta al centro dell’attività speculativa. Tale obiettivo può essere ottenuto solo tramite uno strumento: il non pagamento degli interessi (o la loro dilazione temporale) e la dichiarazione di default (bancarotta). In tal modo, lo strumento stesso della speculazione verrebbe meno: i titoli sovrani diventerebbero di conseguenza carta straccia, junk bonds. Gli investitori istituzionali speculano sul rischio di default ma sono i primi a non volere il default. In tal modo, la speculazione non potrà avere come mira il welfare, soprattutto se si perseguisse una strategia di default controllato, ovvero accompagnata, a livello europeo e di concerto con la Federal Reserve, da una politica comune di gestione della crisi, finalizzata non solo a creare un fondo di intervento a sostegno dei paesi in difficoltà , ma soprattutto a emettere Eurobonds in grado di sostituire i titoli sovrani entrati in default a tassi d’interessi fissi (in linea con il Libor, ad esempio), garantendo i rendimenti solo ai titoli in possesso delle famiglie e con interventi di controllo della libera circolazione dei capitali.
Il diktat della Bce, accompagnato dall’immissione di liquidità ex-nihilo, ha come scopo quello di favorire la speculazione, non di contrastarla. Solo il diritto alla bancarotta degli stati europei può rappresentare una prima risposta efficace, da coniugare con la ripresa di un movimento transnazionale europeo che ponga al primo punto la costruzione di un budget fiscale europeo unico, una politica fiscale e di spesa pubblica che travalichi i confini nazionali. I principali punti di una simile strategia programmatica possono essere i seguenti:
1.      Costituzione di un fondo di garanzia europeo finanziato prevalentemente dalla Banca Centrale Europea
2.      Aumento progressivo del contributo di ogni stato europeo (ora all’1% del Pil) per costituire un budget gestito a livello europeo in grado di favorire una politica sociale comune;
3.      L’avvio di piano europeo per la definizione di una politica fiscale comune.
Tali punti rappresentano solo un programma minimo per consentire il passaggio della sovranità fiscale dal livello nazionale e quello europeo e consentire, in tal modo, di porre un contropotere al potere monetario e finanziario oggi dominante. Ma per raggiungere tali obiettivi è necessario che si sviluppino movimenti sociali fra loro coordinati in grado di incidere nello spazio pubblico e comune europeo. Dai sommovimenti ancora nazionali finalizzati a estendere il diritto all’insolvenza è ora di passare, tramite le reti studentesche, dei migranti, dei precari, delle donne, degli “indignati”, al diritto alla bancarotta su scala europea. Perché il diritto alla bancarotta significa ipotizzare che la moneta è un bene comune.

Intervista a Luciano Gallino


Da il manifesto - 22 settembre 2011


Quali sono stati i punti deboli della formazione dell'Ue?
La Ue è nata con due gravi difetti strutturali, insiti nello statuto e relative funzioni della Commissione Europea e della Bce. La Ce opera di fatto come il direttorio della Ue, ma non è stata eletta da nessuno, le sue posizioni differiscono sovente da quelle del Parlamento europeo, organismo eletto, e appare in troppi casi funzionare come la cinghia di trasmissione dei dettami iperliberisti dell’Ocse e del Fmi.

Da parte sua la Bce è una banca centrale di nome, che però opera solo parzialmente come tale. I paesi entrati nell’euro hanno rinunciato al potere più importante che uno stato possa detenere: quello di creare denaro. Oggi solo la Bce può farlo. Ma lo fa male e in modo indiretto, ad esempio concedendo per anni imponenti flussi di credito alle banche che poi creano denaro privatamente con i prestiti che concedono a famiglie e imprese. Il maggior limite della Bce deriva dal suo statuto, che le impone come massimo scopo quello di combattere l’inflazione, laddove una banca centrale dovrebbe avere tra i suoi scopi anche la promozione dello sviluppo e dell’occupazione. Va notato ancora che la sua indipendenza dai governi maschera in realtà la sua dipendenza dal sistema finanziario e la sua mancanza di responsabilità sociale in nome di un ottuso monetarismo.  Democratizzare la Ce e la Ue sarebbero compiti impellenti per i governi europei, se non fosse che per governi di destra, come di fatto son diventati quasi tutti, in fondo una governance non democratica e socialmente irresponsabile della Ue non è poi un gran male.

La centralità della moneta unica, come esclusivo campo d'unità europea, quali vuoti ha prodotto nello sviluppo economico degli stati membri?

Gli stati della zona euro hanno ceduto il potere di creare denaro, com’era necessario per creare una grande realtà politica ed economica quale è  la Ue, ritrovandosi poi senza  una  banca centrale che presti loro,  in caso di reale necessità,  il denaro occorrente. La Bce dovrebbe operare come un prestatore di ultima istanza - così sostengono vari economisti – non diversamente da quanto avviene con altre banche centrali quali la Fed o la Bank of England.  Tuttavia il suo statuto  per ora le impedisce di assumere in modo diretto un simile fondamentale ruolo e potere.  Ciò ha influito negativamente in tutta la Ue sulla possibilità di condurre politiche economiche e sociali adeguate alla situazione dell’economia europea e mondiale. Le economie più forti, quali la Germania e la Francia, ne sono uscite meglio – non da ultimo perché i banchieri tedeschi e francesi che siedono nel consiglio della Bce han fatto tutto il possibile per evitare troppi danni alle banche dei loro paesi.

Cos'è mancato di più, nel processo unitario, dal punto di vista sociale?

Se c’è un elemento che più di ogni altro potrebbe e dovrebbe fondare l’unità della Ue è il suo modello sociale, cioè l’insieme dei sistemi pubblici intesi a proteggere individui, famiglie, comunità dai rischi connessi a incidenti, malattia, disoccupazione, vecchiaia, povertà. Sebbene il modello sociale europeo presenti notevoli differenze da un paese all’altro, nessun altro grande paese o gruppo di paesi al mondo offre ai suoi cittadini  un livello paragonabile di protezione sociale – la più significativa invenzione  civile del XX secolo. Ne segue che i governi Ue che attaccano lo stato sociale sotto la sferza liberista della troika Ce, Bce e Fmi, nonché del sistema finanziario internazionale, minano le basi stesse dell’unità europea, oltre a fabbricare recessione per il prossimo decennio e piantare il seme di possibili svolte politiche di estrema destra.

Alla luce della crisi attuale, perché l'Ue appare impotente?

Anzitutto perché non ha ancora alcuna istituzione che svolga qualcosa di simile alle funzioni di un governo centrale democraticamente eletto e riconosciuto dalla maggioranza dei suoi cittadini. Di conseguenza ciascun paese pensa per sé. A ciò contribuisce pure lo strapotere del sistema finanziario internazionale, in assenza di qualsiasi riforma che sappia arginarlo. Inoltre, se si guarda ai singoli paesi, i  partiti al potere hanno un orizzonte decisionale di pochi mesi, ovvero pensano soprattutto alle prossime elezioni, mentre dovrebbero ragionare su un arco di più anni.  Peraltro l’impotenza deriva anche da una diagnosi sbagliata – quando non sia volutamente artefatta - delle cause della crisi di bilancio. Quest’ultima viene concepita come se derivasse da un eccesso di uscite generato dai costi dello stato sociale, laddove si tratta in complesso di un calo delle entrate che dura da oltre un decennio. Esso è stato causato da diversi  fattori: i salvataggi delle banche, che solo nel Regno Unito e in Germania sono costati un paio di trilioni di euro;  le politiche di riduzione dell’onere fiscale concesse ai ricchi, che hanno sottratto centinaia di miliardi ai bilanci pubblici (in Francia, ad esempio, tra i 100 e i 120 miliardi nel decennio 2000-2009);  infine il fatto che grazie alle delocalizzazioni le corporation pagano le imposte all’estero, dove tra l’altro sono minime, e non nel paese d’origine. Ancora in Francia, per dire, si è molto discusso del caso Total, il gigante petrolifero che nel 2010 ha conseguito 12 miliardi di utili, ma in patria – del tutto legalmente – non ha pagato un euro di imposte (salvo qualche milioncino che vale come indennizzo ai comuni dove opera ancora qualche suo impianto). Ora se un governo è ossessionato dall’idea che il deficit sia dovuto unicamente a un eccesso di spesa sociale punta a tagliare quest’ultima, cercando però al tempo stesso di evitare ricadute negative in termini elettorali, e per la medesima ragione  si rifiuta di accrescere le entrate alzando le imposte ai benestanti, o alle imprese delocalizzate. E’ ovvio che non fa differenza se quel governo sa benissimo che la diagnosi è errata, ma la abbraccia per soddisfare le forze economiche cui ritiene di dover rispondere.  In ambedue i casi il risultato sono manovre che picchiano soltanto sui più deboli, mentre le radici reali della crisi non sono nemmeno intaccate.

I vincoli di bilancio quali conseguenze hanno sull'economia «reale»?

Le più visibili sono l’aumento della disoccupazione e del lavoro precario. I licenziamenti in tanti paesi di centinaia di migliaia di dipendenti della PA, insegnanti compresi, i tagli alle spese dei ministeri ed ai servizi resi dai comuni, a partire dai trasporti pubblici, l’aumento delle imposte indirette come l’Iva, comportano nell’insieme una riduzione dei consumi e con essa una minor domanda di beni e servizi alle imprese.  Queste reagiscono licenziando o assumendo quando capita solo con contratti a termine, il che genera altra disoccupazione, in un minaccioso avvitarsi dei processi economici verso il basso.

Ha senso, come alcuni fanno, auspicare il default o il ritorno alle monete nazionali?


Sarebbe una pura follia. In primo luogo il ritorno a diciassette monete diverse  solleverebbe difficoltà tecniche assai complicate da superare, poiché l’integrazione economica, finanziaria e legislativa tra i rispettivi paesi ha fatto nel decennio e passa dell’euro molti passi avanti. Inoltre parecchi paesi avrebbero a che fare con tassi di scambio catastrofici. Tra di essi vi sarebbe sicuramente l’Italia. Il giorno dopo un eventuale ritorno alla lira ci ritroveremmo con il  franco a 500 lire (era a 300 quando venne introdotto l’euro),  il marco a 2000 (era a 1000) e la sterlina a oltre 3000. A qualche imprenditore simili tassi possono far gola, poiché favoriscono le vendite all’estero; ma essendo quella italiana un’economia di trasformazione, che all’estero deve comprare tutto, dal gas ai rottami di ferro, il costo degli acquisti dall’estero  le infliggerebbe un colpo insostenibile.

Gli stati, i governi hanno ancora qualche margine di manovra e qualche peso sulle decisioni di fondo o tutto è nelle mani di Fmi, Bce o Commissione di Bruxelles?

La troika in questione ha di fatto espropriato i paesi Ue della loro sovranità – con l’eccezione della Germania per la sua capacità produttiva e del Regno Unito perché ha conservato una moneta sovrana. Senza le riforme strutturali della Ue, implicite in ciò che dicevo all’inizio, essa continuerà a dettar legge.

Che giudizio dà sulla manovra italiana? E sull'atteggiamento un po' rassegnato – sul merito - delle opposizioni parlamentari?

La manovra italiana è una fotocopia sbiadita delle solite ricette che la troika di cui sopra trasmette regolarmente ai paesi in difficoltà. Di certo essa accrescerà la disoccupazione, impoverirà ulteriormente il paese, ponendo così le basi per dieci anni di recessione – teniamo conto che il nostro Pil è ancora parecchi punti al disotto del livello raggiunto nel 2007 – e per giunta non servirà in alcun modo a ridurre il debito pubblico. Su questo fronte l’opposizione difficilmente poteva opporsi all’ultimo momento, poiché quando la nave sta affondando uno cerca di salvare il salvabile, piuttosto che continuare a insistere sui difetti di progettazione della nave. Peraltro le opposizioni hanno avuto anni per chiamare i cittadini a discutere su tali difetti, quelli della povera scialuppa del  governo ma anche quelli della nave Ue, e provare a disegnare insieme con loro un progetto diverso.  Non mi pare che finora le loro proposte abbiano lasciato traccia di sé, nella memoria dei cittadini o nei documenti.


Prossimo appuntamento Mercoledì 5 Ottobre 2011 ore 21

Prossimo appuntamento: 
Mercoledì 5 Ottobre ore 21.00
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ordine del giorno 
 Rendiconto assemblea 1 Ottobre 2011
 'Dobbiamo fermarli'  di Roma

mercoledì 28 settembre 2011

Altro giro,altro regalo. Alle banche .

Di Nicola Melloni da Liberazione 28 settembre 2011
Di fronte alla crisi dell'Euro che sta per travolgere, nuovamente, il sistema bancario internazionale, Banca Centrale Europea, Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale non sanno far altro che riproporre le stesse stantie ( e devastanti) ricette di quattro anni fa. Nuovamente si tratta di ricapitalizzare le banche i cui asset si sono drasticamente deprezzati a causa della forte esposizione che hanno nel mercato dei titoli pubblici - quello greco, in primis ma, naturalmente, anche il nostro. Nuovamente si tratta di creare nuovo debito, questa volta attraverso l'Efsf (European Financial Stability Facility[1]), per rimettere in sesto i vecchi debiti ormai impagabili. Già nel 2007 si salvarono le banche sommerse dai subprime, trasformando il debito privato in debito pubblico, che ha poi causato la crisi attuale. Ora si ritenta un'operazione simile, con l'Efsf che viene rimodellato, in pratica, come il fondo salva-banche istituito da Bush nel 2007. Con quale credibilità?
Quattro anni fa la misura salva banche - anche se non la sua successiva applicazione - pareva una misura di buon senso e necessaria per evitare un tracollo che avrebbe polverizzato l'intero sistema finanziario e con esso i risparmi delle famiglie e il finanziamento all'industria. Ma il salvataggio avrebbe dovuto essere accompagnato da precise regolamentazioni che evitassero l'esposizione delle banche nel futuro e che, soprattutto, non mettessero nuovamente gli Stati davanti ad una situazione senza via d'uscita, obbligandoli a salvare nuovamente le banche incapaci di governare in maniera efficiente il loro rischio. Ed invece nulla di tutto ciò è stato fatto. Nel montare della crisi bancaria del 2007 le banche erano convinte di non poter fallire, sapevano che gli Stati avrebbero fatto carte false per aiutarle, ed in effetti fu così. Erano too big to fail (troppo grandi per fallire) e questo le incentivò ad intraprendere attività rischiose, consapevoli che in caso di successo avrebbero goduto dei profitti, ed in caso di fallimento sarebbero state salvate dai governi occidentali. Ora i titoli tossici non sono più i mutui subprime, ma i titoli del tesoro di paesi europei in crisi. Nell'ultimo decennio, illudendosi che l'euro rappresentasse una garanzia a prova di bomba, linee di credito senza fondo sono state aperte verso i paesi meridionali dell'Unione, generando un massiccio innalzamento del debito pubblico, in alcuni casi (in Grecia, ad esempio), e di quello privato in altri (come in Spagna). Ed ora questi debiti non possono essere pagati.
A dispetto delle promesse fatte da Obama durante la sua campagna elettorale e dai vari G20, nulla è stato fatto in questi anni per rimettere ordine nel sistema bancario. Prima dell'estate l'Unione Europea dotava l'Efsf di risorse per risolvere la crisi greca, ma gli eventi hanno preceduto la politica ed ora si vuole innalzare la dotazione del fondo ad almeno 3000 miliardi di Euro, perchè anche Italia e Spagna sono a rischio. Non sono fondi per salvare gli Stati, i cui insostenibili debiti rimangono, ma soprattutto per evitare un altro collasso bancario. Non bisogna però farsi illusioni, l'Efsf viene creato per guadagnare tempo: dare un pò di fiato al mercato, mettere per il momento in sicurezza il sistema bancario, fermare gli attacchi speculativi, tenere artificialmente in vita un sistema già morto da quattro anni.
Intanto, i problemi di struttura rimangono. Le economie occidentali continuano a rimanere ostaggio dell'industria finanziaria e devono continuamente trovare le risorse, indebitandosi, per organizzare bail-out (salvataggi) sempre più grandi. L'Unione Europea, e soprattutto la sua componente nord-europea, continua a vedere come fumo negli occhi l'unione fiscale, non rendedosi conto che l'impalcatura istituzionale della Ue è insostenibile, che non può esistere una valuta senza un governo che abbia in mano tutti gli strumenti di politica economica. La debolezza politica e la divisione all'interno dell'Unione non può che aggravare le cose. Si va avanti di riunione in riunione, tra dubbi e discussioni, e sembra drammaticamente evidente che la sola preoccupazione sia salvare la propria baracca. Da una parte si rifinanziano le banche greche insieme a quelle tedesche per evitare l'effetto contagio tra istituti finanziari. Ma dall'altra non si fa veramente nulla per l'economia greca, anzi la si affossa con ricette economiche recessive, interessate solo al pagamento dei conti in scadenza e non alla sostenibilità di un medio periodo comunque troppo lungo per i vili interessi di bottega della finanza e della politica europea.


[1] European Financial Stability Facility è una società basata in Lussemburgo fondata dai 16 stati membri dell'eurozona. È essenzialmente un emittente di obbligazioni. La raccolta tramite il collocamento sui mercati internazionali degli EFSF-bond viene utilizzata unicamente per aiutare temporaeamente gli stati dell'eurozona in difficoltà. L'aiuto consiste nell'erogazione di un prestito allo stato che lo richiede: l'obiettivo è preservare la stabilità finanziaria dell'unione monetaria. Definizione Sole24ore.it

Verso la mobilitazione del 15 Ottobre

Il 15 Ottobre Sarà Una Giornata Europea E Internazionale Di Mobilitazione
“gli esseri umani prima dei profitti, non siamo merce nelle mani di politici e banchieri,
chi pretende di governarci non ci rappresenta, l’alternativa c’è ed è nelle nostre mani, democrazia reale ora!”
Commissione Europea, governi europei, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale,  multinazionali e poteri forti ci presentano come dogmi intoccabili il pagamento del debito, il pareggio del bilancio pubblico, gli interessi dei mercati finanziari, le privatizzazioni, i tagli alla spesa, la precarizzazione del lavoro e della vita.
Sono ricette inique e sbagliate, utili a difendere rendite e privilegi, e renderci tutti schiavi. Distruggono il lavoro e i suoi diritti, i sindacati, il contratto nazionale, le pensioni, l’istruzione, la cultura, i beni comuni, il territorio, la società e le comunità, tutti i diritti garantiti dalla nostra Costituzione. Opprimono il presente di una popolazione sempre più impoverita, negano il futuro ai giovani.
Non è vero che siano scelte obbligate. Noi le rifiutiamo. Qualunque schieramento politico le voglia imporre, avrà come unico effetto un’ulteriore devastazione sociale, ambientale, democratica. Ci sono altre strade, e quelle vogliamo percorrere, riprendendoci pienamente il nostro potere di cittadinanza che è fondamento di qualunque democrazia reale.
Non vogliamo fare un passo di più verso il baratro in cui l’Europa e l’Italia si stanno dirigendo e che la manovra del Governo, così come le politiche economiche europee, continuano ad avvicinare.
Vogliamo una vera alternativa di sistema. Si deve uscire dalla crisi con il cambiamento e l’innovazione.
Le risorse ci sono.
Si deve investire sulla riconversione ecologica, la giustizia sociale, l’altra economia, sui saperi, la cultura, il territorio, la partecipazione. Si deve redistribuire radicalmente la ricchezza. Vogliamo ripartire dal risultato dei referendum del 12 e 13 giugno, per restituire alle comunità i beni comuni ed il loro diritto alla partecipazione. Si devono recuperare risorse dal taglio delle spese militari. Si deve smettere di fare le guerre e bisogna accogliere i migranti.
Le alternative vanno conquistate, insieme. In Europa, in Italia, nel Mediterraneo, nel mondo. In tanti e tante, diversi e diverse, uniti. E’ il solo modo per vincere.
Il Coordinamento 15 ottobre, luogo di convergenza organizzativa dei soggetti sociali impegnati, invita tutti e tutte a preparare la mobilitazione e a essere in piazza a Roma, riempiendo la manifestazione con i propri appelli, con i propri contenuti, con le proprie lotte e proposte
PER LA NOSTRA DIGNITÀ E PER CAMBIARE DAVVERO
COORDINAMENTO 15 OTTOBRE  www.15ottobre.wordpress.com
Fanno parte del Coordinamento 15 ottobre:
A Sud, Action, Altramente, Arci, Atenei in Rivolta, Attac Italia, CIB – Unicobas, Comitato 1° ottobre, Confederazione COBAS, Controlacrisi.org, CPU – Coord. Precari dell’Università, CUB – Confederazione Unitaria di Base, ESC, Fair Watch, Fed. Anarchica Italiana – Roma, Federazione della Sinistra, FGCI – Federazione Giovanile Comunisti Italiani, FIOM, Flare,  Forum Diritti Lavoro, Giovani Comunisti, Gruppo Abele, Laboratorio Politico “Alternativa”, Legambiente, Liberazione,
LINK – Coordinamento Universitario, Osservatorio Europa, Partito Comunista dei Lavoratori, P. CARC, PDCI, Popolo Viola, PRC, Radio Vostok, R@P - Rete per l’Autorganizzazione Popolare , Rete@a Sinistra, Rete 28 Aprile – CGIL, Rete dei Comunisti, Rete della Conoscenza, Rete Salernitana per il 15 ottobre, Rete Viola, RIBALTA – Alternativa Ribelle,  Sinistra Critica, Sinistra Euromediterranea, Snater, Terra del Fuoco, Tilt, UDS – Unione degli Studenti, Un ponte per, Unicommon, Uniti per l’Alternativa, USB

martedì 27 settembre 2011

Il 1° ottobre a Roma contro il debito e per la democrazia conferenza stampa di Giorgio Cremaschi

Video della Conferenza Stampa di Giorgio Cremaschi

Il 1° ottobre, nell’assemblea autoconvocata a Roma al teatro Ambra Jovinelli, si prova a costruire uno spazio politico che oggi in Italia non c’è.
Questo spazio è quello di chi non solo vuole rovesciare il governo Berlusconi, giunto ai punti estremi della sua abiezione morale, politica e anche economica.
Far cadere Berlusconi è condizione necessaria, ma non sufficiente, per affrontare la crisi italiana dal lato della libertà, della giustizia e dell’uguaglianza. Per riconquistare la nostra democrazia costituzionale, occorre anche scontrarsi con l’altro avversario che oggi abbiamo di fronte. Questo avversario è quello del governo unico delle banche e della finanza che, attraverso i diktat della Banca Europea e del Fondo monetario internazionale, sta imponendo in tutta Europa la distruzione dello stato sociale e della partecipazione democratica. I parlamenti dei paesi più in crisi e più soggetti a speculazione, i maiali secondo il malevolo acronimo britannico P.i.i.g.s. (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna), sono ormai soggetti a un commissariamento fallimentare che impone ad essi decisioni che non possono discutere. La schiavitù del debito diventa così la schiavitù della democrazia e i cittadini perdono il diritto a decidere sulle ragioni stesse che hanno fondato le libertà costituzionali: chi paga, quanto paga, perché paga.
In Italia tutto questo è offuscato dall’aria inquinata prodotta da Berlusconi e dal suo clan. La indispensabile purificazione dell’aria, come pare chiedere anche la Cei, renderà però ancora più evidente la necessità di costruire un’alternativa vera alle politiche economiche dominanti. Politiche economiche che oggi sono alla base delle scelte sia dei governi di destra, sia dei pochi rimasti governi di sinistra.
La Banca Europea e il Fondo monetario internazionale stanno imponendo ricette di liberismo radicale nella gestione della crisi, proprio quando il liberismo radicale è anch’esso in crisi profonda.
L’intervento pubblico, che è indispensabile per tutti, viene finalizzato solo a salvare le banche e i loro profitti, mentre tutto il resto viene privatizzato. Da noi questo significa – ecco un altro vulnus della democrazia – che il responso del referendum sull’acqua, nel quale 27 milioni di italiani hanno chiaramente detto no alla privatizzazione dei beni pubblici, viene trasformato nel suo contrario. La maggioranza di governo e l’opposizione bancaria e confindustriale ad esso, si rinfacciano l’incapacità di privatizzare e liberalizzare a sufficienza. I contratti nazionali vengono distrutti e con essi il principio stesso della legge uguale per tutti. Perché due privati, un’azienda prepotente e un sindacato complice, sulla base dell’articolo 8 della manovra di governo, possono decidere di non rispettare le leggi sul lavoro. D’altra parte già l’accordo del 28 giugno aveva aperto la via alla riduzione del nostro sistema sociale, a un’insieme di relazioni aziendalistiche e corporative. Che poi sono il risultato di quei vincoli della globalizzazione che per primo Marchionne ha imposto con tutta la brutalità, e tutto il consenso politico possibili.
Tutti i costi della crisi vengono fatti pagare al lavoro dipendente, ai pensionati, ai disoccupati, ai poveri, le donne e i giovani pagano di più, l’ambiente sparisce anche come problema e nel nome degli affari le grandi opere devastanti, a partire dalla Tav, vengono rivendicate da destra e da sinistra.
Ebbene tutto questo sta passando senza che sia in campo una reale alternativa.  Destra e sinistra si rinfacciano reciprocamente di essere incapace di “rassicurare i mercati”, mentre il problema di fondo sarebbe di rassicurare la grande maggioranza della popolazione che non è in grado di pagare un solo centesimo in più per questa crisi.
Bisogna mettere in discussione la macchina infernale del debito e della globalizzazione, altrimenti dalla crisi non si esce mentre si sprofonda nell’ingiustizia e nel degrado.
L’interesse medio sul debito pubblico italiano è oramai di 80 miliardi all’anno. Le catastrofiche manovre decise dal governo Berlusconi drenano 60 miliardi all’anno. Questo significa che in questo stesso istante noi paghiamo, anche con quello che non abbiamo, e non riusciamo neppure a far fronte agli interessi sul debito. Come sostengono tutti gli economisti di buon senso e come sottobanco dicono anche i governanti degli Stati Uniti, l’Europa non può autodistruggersi con la schiavitù del debito. Per questo occorre rimettere in discussione alla radice i trattati europei, la follia di una unione monetaria, senza nessuna comunità democratica, fiscale, economica, di diritti civili. Occorre un’altra Europa perché quella della globalizzazione, dell’’Euro, delle banche, dei patti di stabilità sta sprofondando nella crisi e nell’ingiustizia. Questa Europa è fallita. Per questo dobbiamo costruirne un’altra.
In tutta Europa ci si mobilita su questi temi, il 15 ottobre in tutta Europa si scenderà in piazza contro il governo unico delle banche e della finanza.
Solo in Italia non si riesce a far emergere questo conflitto. E questo perché Berlusconi ha avuto un doppio effetto negativo nel nostro paese. Il disastro della sua politica e lo stato confusionale che questa ha provocato in tutte le opposizioni. Come diceva Woody Allen: “Non litigate mai con un cretino, qualcuno potrebbe non accorgersi della differenza”. In tutta Europa ci si divide sulle scelte di fondo, in tanti paesi grandi e piccoli i cittadini sono stati chiamati a votare per decidere sul loro futuro. Ultima la piccola Islanda. Solo da noi la popolazione è considerata troppo immatura e viene costretta a delegare al palazzo il confronto e gli accordi su ciò che riguarda la propria vita e quella dei propri figli. Non siamo più disponibili a farci espropriare del futuro e della democrazia. Per questo ci incontriamo il 1° ottobre.

sabato 24 settembre 2011

Intervista a Piergiovanni Alleva Giurista e professore di diritto del lavoro

 
«Articolo 8 già neutralizzato? Cgil s'illude. Ora referendum» 
Intervista a Piergiovanni Alleva Giurista e professore di diritto del lavoro
di Roberto Farneti da Liberazione di venerdì 23 settembre

«Vedo che Bonanni non la pensa così. Ma anche se la corretta interpretazione di quelle cinque righe aggiunte all'accordo del 28 giugno fosse quella divulgata dalla Cgil, è comunque un'illusione ritenere che basti questo per neutralizzare l'articolo 8. Perchè la legge è più forte di qualsiasi accordo». Piergiovanni Alleva, giuslavorista e responsabile della consulta giuridica della Cgil, non condivide l'entusiasmo di Susanna Camusso dopo la formalizzazione dell'accordo tra sindacati e Confindustria su contratti e rappresentanza. E annuncia la presentazione di un referendum per togliere di mezzo la norma "salva Fiat", inserita nella manovra economica dal ministro Sacconi. Una norma oltretutto incostituzionale, perché consente a soggetti privati - tali sono sindacati e imprese - di derogare non solo contratti nazionali ma persino leggi dello Stato.

La Cgil canta vittoria. Secondo Susanna Camusso, l'inserimento della clausola aggiuntiva che impegna tutti i firmatari, Confindustria compresa, ad «attenersi all'accordo interconfederale del 28 giugno, applicandone compiutamente le norme» sarebbe «il segnale che l'operazione del governo sull'articolo 8 non è stata condivisa dalle parti». Basta ciò per poter dire che questa bomba che minaccia le fondamenta del diritto del lavoro è stata disinnescata?
Dal punto di vista giuridico sicuramente no. Perché l'articolo 8, a parte il fatto che è incostituzionale, finché non sarà dichiarato tale o non sarà abrogato per altra via è una norma di legge. Ed è una norma che conferisce una potestà diretta ai rappresentanti aziendali dei sindacati maggiormente rappresentativi sul piano nazionale o territoriale. Tali soggetti potranno fare accordi in deroga sia ai contratti nazionali che alle precedenti leggi del lavoro. Questa potestà discendente dalla legge non può essere inibita da un accordo. E quindi se qualche sindacalista locale, malgrado l'accordo del 28 giugno, decidesse di avvalersi delle deroghe previste dall'articolo 8, avremmo al massimo una responsabilità di tipo disciplinare interno del singolo appartenente a una determinata organizzazione. Risultato: la sanzione sarebbe acqua fresca, ma intanto il contratto derogatorio resterebbe valido e i lavoratori coinvolti perderebbero il diritto. L'unica difesa che si può ipotizzare - ma è complicato - è che i lavoratori medesimi possano chiedere un risarcimento ai sindacalisti che si sono avvalsi dell'articolo 8 o al sindacato nazionale che non li ha tenuti a freno, visto che l'accordo del 28 giugno impegna tanto i vertici quanto le strutture periferiche. Ecco perché l'articolo 8 deve essere tolto di mezzo.

Tanto più che già si vedono interpretazioni diverse. Bonanni ha chiarito che, secondo lui, le parti sociali si sono semplicemente impegnate «a gestire in piena autonomia tutti i punti che lo stesso articolo 8 demanda alla volontà di sindacati e imprese». Forse le tutele dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non verranno toccate, perché la Cisl ha già chiarito che non vuole. Ma la prima parte dell'articolo 8, ha precisato Bonanni, «rimane un fatto positivo», con riferimento alla legalizzazione retroattiva degli accordi di Pomigliano e Mirafiori.
Quella clausola aggiuntiva impegna tutti i firmatari e le rispettive strutture a tutti i livelli a rispettare l'accordo del 28 giugno, accordo che, a determinate condizioni, consente deroghe a contratti ma non a leggi nazionali. Tuttavia, quella stessa clausola non prevede l'impegno esplicito di non applicare l'articolo 8. Per cui, anche se l'interpretazione corretta di quelle cinque righe fosse quella della Cgil - e cioè "l'articolo 8 c'è ma non lo usiamo" - è chiaro che quello che sta venendo fuori è un feroce guazzabuglio. Che va gestito promuovendo un referendum abrogativo dell'articolo 8, come ci apprestiamo a fare.

Che effetti immediati può avere l'articolo 8 sui ricorsi che la Fiom ha presentato contro la Fiat?
Sicuramente li avrà. E' probabile che nelle cause di Torino il terzo comma ci sarà giocato contro per confutare la ultrattività - che la Fiom invece sostiene - del contratto nazionale del 2008. Ma io li aspetto a pie' fermo. Anzi, ci farebbero un favore. Perchè per noi è il modo più veloce per arrivare in Corte Costituzionale.

giovedì 22 settembre 2011

Dobbiamo Fermarli


5 proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche.
Ci incontriamo il 1° ottobre a Roma

(Per adesioni: appello.dobbiamofermarli@gmail.com)

Contro  l’Europa delle Banche
NOI IL DEBITO NON LO PAGHIAMO
Sabato 1° ottobre 2011
Assemblea
Roma  h. 9.30  Teatro Ambra Jovinelli
Via G. Pepe 43 (staz. Termini)
Dobbiamo fermarli !
Stop alla distruzione dei diritti sociali, civili e democratici   

  Diretta web: www.libera.tv

Hanno aderito e parteciperanno alla riunione di Roma

Valeria Ghiso
Vilma Filisetti
Maurizia Nichelatti
Furio Mocco
Roberta Melandri

per adesioni e contatti scrivere a unitiallabase@gmail.com

mercoledì 21 settembre 2011

Debito pubblico: come e perché si può non pagare



 














Contropiano intervista Luciano Vasapollo 

Il non pagamento del debito pubblico e la fuoriuscita dall'Eurozona non sono più proposte velleitarie ma possono diventare soluzioni da percorrere. In un libro di prossimo uscita - "Il Risveglio dei maiali", edizioni Jaca Book - tre economisti marxisti, Arriola, Martufi, Vasapollo, analizzano la crisi in corso, le micidiali conseguenze sui paesi Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecai, Spagna) dell'Unione Europea e le possibili proposte per non essere annientati dalla macelleria sociale imposta dalla Banca Centrale Europea e dal governo unico delle banche che sta determinando le sorti dei lavoratori, giovani, disoccupati, pensionati nel nostro e negli altri paesi europei. 

Tra i movimenti sociali e i sindacati di base del nostro paese, sta emergendo la parola d'ordine del "non pagamento del debito". A tuo avviso è una campagna un po' velleitaria o una soluzione che può diventare realista? Chi verrebbe danneggiato e chi avvantaggiato da un congelamento o una moratoria del pagamento del debito pubblico italiano?
Non chiediamo certo il non pagamento del debito pubblico in mano alle famiglie, che ad esempio rappresenta in Italia solo il 14% del totale. La moratoria richiesta è nel pagamento del debito pubblico interno ed estero in mano alle banche, finanziarie, assicurazioni, grandi fondi pensione ed investimento. Cerchiamo di capire perché e come.
Il passaggio dall'Europa finanziaria ed economica alla costruzione politica dello Stato sovranazionale europeo, crea un terrorismo massmediatico attraverso un vero e proprio attacco politico e speculativo dei mercati finanziari internazionali per screditare il ruolo degli Stati-Nazione. E' così che il debito pubblico si trasforma in debito sovrano.
Quindi, oggi, creare nell'opinione pubblica l'idea che gli Stati siano sull'orlo del fallimento, significa occultare la crisi economica generale di accumulazione del sistema capitalistico, il disastro dei mercati creditizi e finanziari, creando al contempo la necessità della socializzazione delle perdite del sistema bancario attraverso il denaro delle imposte e tasse dei lavoratori e il taglio dello Stato sociale e del costo del lavoro.
Le rendite finanziarie, a cui vanno aggiunte quelle immobiliari e di posizione, sottraggano le risorse alla produttività reale, incanalandosi soltanto in processi di accelerazione speculativa che necessariamente trovano poi il momento di esaurimento del ciclo nel rappresentarsi dello scoppio delle bolle speculative stesse. Si capisce chiaramente perché la campagna di terrorismo massmediatico, sul debito pubblico e il debito sovrano ha semplicemente un obiettivo politico che è ancora quello di indirizzare contro lo Stato,contro l'economia pubblica, la critica feroce della gente comune ,e allo stesso tempo salvare il sistema di impresa e bancario con la socializzazione delle perdite, a carico dello Stato e così via, via liberalizzando, privatizzando, tagliando salari e Welfare, e infliggendo un altro duro colpo al potere di acquisto di lavoratori e pensionati.
E se qualche paese ,come l'Italia al momento si è in parte salvata dal pieno disastro alla greca, non è grazie all'operato delle tanto osannate politiche economico-finanziarie del Governo attuale e precedenti, ma semplicemente perché strutturalmente l'operatore famiglia italiano aveva una forte propensione al risparmio che in piccola parte ancora incide; inoltre risulta evidente che i titoli del debito pubblico italiano non si trasformano in debito estero nella stessa percentuale degli altri paesi europei, ma rimangono in Italia, realizzando quei grandi flussi di riciclaggio di denaro sporco in mano alle organizzazioni mafiose e criminali.
E' così che in Italia continua l'effetto domino del perverso intreccio politica-malaffare-criminalità, che sostiene l'altra forma attuale del keynesismo, cioè quello a carattere criminale; la messa a produzione dell'economia criminale, che, insieme a tutta l'altra fetta dei economia nera e sommersa, realizza in termini percentuali una quantità pari a circa il 50% del PIL italiano. Si tenga inoltre conto che nell'Eurozona complessivamente a fronte di un totale di debito estero del 183 % del PIL solo il 44% è il debito sovrano dei governi mentre l'83% è quello delle banche e il 51% quello delle imprese ( compreso quello intrafirm). E non è assolutamente vero che la situazione peggiori nel computo dell'Europa a 27, poiché su un totale debito estero del 152% del Pil ,solo il 37% è il debito sovrano governativo, mentre il 101% è quello bancario, il 40% quello privato di impresa e il 20% quello intrafirm.
E' evidente la diversificazione delle forme di debito e come nella struttura del debito estero non sia certo la percentuale del debito governativo o sovrano quella maggiormente preoccupante. Ciò che è in atto è semplicemente lo spostamento dei debiti dai bilanci da alcuni grandi mostri bancari, assicurativi, industriali e finanziari a quelli pubblici. Si insiste sulla necessità di tagliare la spesa sociale evocando il falso problema che l'Europa in generale è un sistema in deficit mentre invece risulta chiaro l'opposto cioè l'assenza di un debito estero europeo, anche se ciò è il risultato di partite compensatorie in cui il creditore per eccellenza, cioè la Germania insieme a qualche paese del Nord Europa, è il detentore dei titoli del debito dei PIIGS e di altri paesi fortemente indebitati.
Si consideri, inoltre, che continuerà la politica di spostare risorse dei bilanci pubblici per sostenere imprese, banche e finanza, in un contesto in cui la stessa crisi peggiorando le condizioni sociali dovrebbe aumentare la quota di risorse destinate al welfare.
In realtà, le banche stanno approfittando dell'aumento dell'offerta del debito pubblico per ristrutturare i loro fondi di investimento verso altri con rischi assai minori, con l'obiettivo di dare garanzie ai propri clienti, che non stanno assolutamente continuando a scommettere sulla roulette russa rischio/redditività alta, dopo la rovinosa caduta. Le banche hanno bisogno anche di modificare la composizione del proprio attivo, caricato di titoli e valori immobiliari in corso di svalutazione accelerata; i titoli di debito pubblico diventano un valore copertura perfetto.
Sono le banche che realizzano la maggior parte delle transazioni nei mercati dei prodotti finanziari derivati, sono le banche e i fondi pensione e di investimento i maggiori speculatori, e la crisi finanziaria non ha affatto rallentato le transazioni su questi mercati ma le ha moltiplicate in maniera frenetica.
Con il non pagamento del debito pubblico è quindi il sistema bancario-finanziario che bisogna aggredire e danneggiare, in tal modo si possono di conseguenza favorire gli investimenti in beni comuni, in servizi sociali, in nazionalizzazioni delle imprese dei settori strategici, aumentando di conseguenza i salari diretti, indiretti e differiti.

Nel libro si evocano esperienze come quelle di alcuni paesi latinoamericani - mi vengono in mente Argentina o Ecuador - che hanno visto la ripresa dello sviluppo economico interno e il cambiamento politico prendere slancio proprio dalla decisione di non pagare il debito. Sono episodi particolari e irripetibili o possono indicare una possibile controtendenza generale in grado di estendersi ad altre realtà?

Per capire ciò, bisogna ritornare alle modalità di costruzione del polo imperialista europeo che si è realizzato intorno all'asse franco-tedesco ma in funzione specifica degli interessi della Germania ; non è un caso che i criteri di stabilità facciano riferimento al deficit fiscale, al debito pubblico, all'inflazione e ai tassi di interesse; cioè tutte variabili che devono essere tenute sotto controllo per favorire le esportazioni.
Da ciò si capisce chiaramente perché la Germania controlli tali variabili, in quanto la sua crescita è incentrata sull'export e perché necessita il deficit dei paesi europei dell'area mediterranea, i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda , Italia, Grecia , Spagna), compresa anche la Francia; infatti l'acquisto da parte della Germania dei titoli del debito pubblico di questi paesi rappresentano una forma di investimento dell'eccedente tedesco accumulato. Insomma, il surplus della bilancia commerciale tedesca è reso redditizio dall'investimento del debito dei paesi europei con bilancia commerciale in deficit. Ed è proprio il sistema bancario tedesco che gestisce tale eccedente compreso quello di altri paesi del Nord Europa.
In pratica salvare l'Unione Europea e quindi salvare il modello di export tedesco significa semplicemente distruggere le possibilità autonome di sviluppo dei paesi europei dell'area mediterranea.
E'in questo senso che va interpretata l'azione dell'Unione Europea, che non dotata ancora di una autonoma capacità politica, impone ai paesi deficitari le stesse regole dei piani di aggiustamento strutturale che l'FMI ha applicato in tutti gli ultimi 30 anni per fare "strozzinaggio" sui paesi dell'America Latina e condizionarne le modalità di sviluppo, facendo così giocare ora in Europa come allora in America Latina, un ruolo centrale alle regole della Banca Mondiale oltre a quelle del Fondo Monetario Internazionale.
E' in questo senso e secondo le stesse regole neoliberiste che si scatena la speculazione dei mercati finanziari internazionali sui titoli dei paesi volgarmente chiamati PIIGS.
Per ribaltare tale logica economico-finanziaria imperialista è assolutamente necessario un cambiamento radicale socioculturale (quello che in termini gramsciani si chiama un cambio di egemonia che modifichi il senso comune), che inverta le relazioni causali tra l'economia e la politica, come già si sta sperimentando, ad esempio nei paesi dell'area dell'ALBA. (Alleanza Bolivariana per i popoli di Nuestra America), e in particolare in Bolivia dove i movimenti sociali, di indios, i contadini, i minatori hanno determinato nuove forme di economia plurale e solidale attraverso lo strumento politico della democrazia partecipativa.
Ma da subito è possibile inceppare i meccanismi di potere dei centri-polo, delle aree del sistema di dominio del modo di produzione capitalista, come sta tenacemente realizzando l'alternativa bolivariana dell'ALBA.
E per le organizzazioni sindacali conflittuali e i movimenti sociali anticapitalisti che agiscono in Europa si tratta di acutizzare le contraddizioni contrapponendosi direttamente alle regole dei potentati dell'Europolo.Pertanto risulta imprescindibile per l'affermazione di una nuova moneta e di una politica orientata in favore dei lavoratori, contare su uno spazio produttivo nel quale si possa stabilire una nuova divisione del lavoro basata sui principi di uno sviluppo sociale collettivo solidale e un benessere qualitativo per l'insieme della popolazione della nuova area monetaria ALIAS, di cui parleremo di seguito .

Ma è possibile rimettere in discussione il debito senza pensare in qualche modo a nazionalizzare le banche o settori rilevanti del credito?

Il mercato non può disciplinare se stesso, necessita della mediazione politica, di un intervento da parte dello Stato che realizzi la trasparenza, l'efficienza, salvaguardando però l'interesse sociale generale, garantendo condizioni di parità ai partecipanti e indirizzando le risorse finanziarie a chi è in grado di coniugare redditività e giustizia sociale e distributiva, creando ricchezza redistribuita socialmente e lavoro vero a pieno salario e pieni diritti.
La nazionalizzazione delle banche è la parte più importante del processo generale per uscire dalla finanziarizzazione dell'economia globale, e finché non si sarà realizzato questo obiettivo continuerà il deterioramento della qualità della vita e del lavoro al sol fine di aumentare il tasso di profitto. Rompere la logica del capitale finanziario significa nazionalizzare le decisioni d'investimento per favorire le attività socialmente utili, sottoposte a un criterio di rendimento sociale ed ecologico, che sono criteri di medio e lungo termine.
Il controllo sociale degli investimenti è imprescindibile per dinamicizzare l'attività produttiva, e per orientare il credito in funzione di ottenere il massimo sviluppo dell'occupazione e dell'utilità sociale, e tali funzioni sono fortemente differenti da quelle che applica la banca privata che è orientata al criterio del massimo profitto a breve termine.
La nazionalizzazione delle banche in una situazione di insolvenza e di dipendenza dall'aiuto pubblico è anche un requisito per evitare la fuga dei capitali e per eliminare la drammatica e storica tradizione capitalistica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
Tutto ciò è quindi possibile solo con un serio governo di indirizzo dello sviluppo che non può prescindere dal fondamentale ed efficiente ruolo pubblico nei servizi essenziali e nei settori strategici dell'economia.
Una parte del debito pubblico è il risultato dell'attuazione dei governi per appoggiare capitali locali fortemente indebitati, in primo luogo le banche però anche le imprese (a inizio del 2011 dei 4,7 mila miliardi di euro di debito esterno di Portogallo, Spagna, Italia e Grecia, circa il 32% era debito sovrano governativo, 4% delle autorità monetarie, 38% delle banche, 17% di altri settori imprenditoriali e 8% debiti generati all'interno dei gruppi multinazionali). Questo intento fallito di stabilizzazione portato avanti dai governi con le risorse di tutti i cittadini deve ottenere una compensazione. La nazionalizzazione dei settori strategici delle comunicazioni, energia e trasporti non solo può essere un prezzo giusto, ma allo stesso tempo potrà portare le risorse per realizzare una strategia di rilancio produttivo a breve termine che permetta di creare le condizioni affinché milioni di disoccupati nei Paesi della periferia europea mediterranea comincino a produrre ricchezza sociale nel minor tempo possibile.

Perché criticate in maniera così forte e decisa la proposta di Prodi e Quadrio Curzio che rappresenta una variante che sembrerebbe più a "connotato social-riformista" nell'ambito delle diverse ipotesi sulle emissioni degli Eurobond?

Anche recentemente in questi ultimi mesi si sono susseguite anche e soprattutto da sinistra ipotesi e proposte per risolvere la crisi per rilanciare la crescita e rafforzare l'Europolo, insomma per un capitalismo riformato e dal "volto umano", nel cuore di un polo imperialista. Ma nel capitalismo attuale non vi è spazio per una politica istituzionale di riforme. La crisi strutturale e sistemica del capitalismo di oggi è definitiva.
L'errore di tali keynesiani di sinistra che si prestano al servizio degli interessi del capitale europeo, sta non solo nell'identificare questa crisi come da sottoconsumo, senza intenderne il carattere sistemico e negando qualsiasi impostazione teorica di origine marxista, ma la loro ipotesi dell'"euro buono" si scontra con la loro stessa impostazione di crescita nella compatibilità capitalista. Infatti ecco che si moltiplica in questo senso l'idea di alzare il denominatore del rapporto debito pubblico-PIL per ridurre l'impatto di tale indice attraverso stravaganti idee dei keynesiani di sinistra per stimoli alla crescita: green economy e progetti ambientali, e progetti infrastrutturali tanto fantascientifici quanto inutili; e per tutto ciò le soluzioni di finanziamento potrebbero derivare da l'emissione di nuovi strumenti finanziari, come gli eurobond per attrarre liquidità dal resto del mondo e sostenere tale modalità di investimenti in una nuova crescita che porterebbe come conseguenza anche alla messa a privatizzazione della stessa spesa sociale (ospedali privati , università private, fondi pensione, ecc.). Tra tali proposte quella dell'emissione degli eurobond per finanziare i debiti dei singoli Stati e di cui si farebbe garante l'intera Eurozona; proposta che ovviamente trova in pieno disaccordo la Germania che non si vuol far carico delle crisi e debiti altrui.
A fine di agosto 2011 l'ex presidente della Commissione Europea ed ex Presidente del Consiglio in Italia, Romano Prodi, e l'economista Quadrio Curzio sono tornati ad insistere per creare un sistema di eurobond emessi attraverso un nuovo Fondo Finanziario Europeo (FFE), denominati Euro Union Bond (EUB). Questo Fondo potrebbe garantire con un suo capitale di mille miliardi, l'emissione di almeno 3000 miliardi di EUB decennali al 3%, in modo da acquistare quote dei debiti di quegli Stati che eccedono il limite del 60% del PIL previsto dal Trattato di Maastricht .
L'emissione dell'EUB a queste condizioni riguarderebbe proprio tale 60% del debito pubblico rispetto al PIL , mentre la restante quota resterebbe sotto la responsabilità degli Stati; il capitale del FFE verrebbe conferito dagli Stati dell'Unione Economica Monetaria in proporzione alle quote da essi detenuti alla Banca Centrale Europea. Per riportare l'attuale livello medio dell'indebitamento dell'Unione Economica Monetaria che è dell'85% al 60% previsto si dovrebbero impiegare 2.300 miliardi di euro; in tal modo per esempio per l'Italia la riduzione del rapporto debito pubblico-PIL passerebbe dall'attuale 120% al 95%. I restanti 700 miliardi di EUB che rimarrebbero rispetto ai 3.000 miliardi di euro previsti andrebbero ad investimenti europei per far crescere le imprese europee dei settori di energia, telecomunicazioni e trasporti.
La proposta di Prodi e Quadrio Curzio suppone che gli EUB a dieci anni abbiano un tasso di rendimento a dir poco eccezionale, cioè del 3%; l'eccezionalità sta nel fatto sorprendente che oggi solo la Germania riesce ad emettere titoli a lungo termine ad un rendimento del 2,75% poiché la media europea del giugno 2011 era del 4,7%, e nessuno ha spiegato per quale miracolosa ragione l'emissione di EUB possa essere inferiore di quasi due punti dalla media ponderata delle emissioni statali attuali, né perché la Germania dovrebbe essere disposta a finanziarsi ad uno 0,25% in più di quello che offre il mercato; e si dà per scontato inoltre che gli Stati che attualmente finanziano il proprio debito a lungo termine ad un tasso di interesse poco maggiore del 3% annuo, come Francia, Lussemburgo, Olanda, Austria, Finlandia sarebbero disposti a intaccare le proprie riserve auree in cambio di finanziare una parte del proprio debito ad un prezzo uguale o poco inferiore di pochi decimi di centesimo di quello che oggi gli propone il mercato.
Inoltre il problema non è se i mercati finanziari fissano un tasso di interesse al 4,7% medio o al 3%, poiché entrambe le percentuali sono sicuramente molto superiori al tasso di crescita previsto del Prodotto Interno Lordo dei prossimi anni, e ciò significa trasferimenti sempre più crescenti di valore verso i settori della rendita attraverso il servizio del debito. Il problema vero è che il costo sociale di finanziare la spesa pubblica attraverso il capitale privato è molto superiore di quello che per esempio si potrebbe realizzare monetizzando il debito.
Chiudere definitivamente con il dominio del capitale è l'unica soluzione reale che Prodi, i keynesiani e tutta la compagnia degli economisti di centro-sinistra e sinistra, vicini e graditi ai poteri forti europei si negano di considerare poiché sono invece consapevoli che volendo sarebbe una possibilità reale

Parliamo di Alias. Nel vostro libro sostenete che uscire dall'Unione Economica e Monetaria - cioè il blocco dei paesi dell'Unione Europea che hanno adottato l'Euro come moneta - può essere una soluzione da perseguire. Su questa ipotesi viene fatto molto terrorismo psicologico sia da parte dell'establishment italiano (vedi Napolitano) sia da parte di settori oltranzisti tedeschi ed europei che vorrebbero espellere dall'Eurozona i paesi Piigs che non riescono a rispettare il pareggio di bilancio. La vostra proposta di un'area economica euro-mediterranea (l'Alias appunto) a quali esigenze corrisponde?

La Germania continua a mantenere prezzi e salari moderati in termini relativi per favorire il proprio modello di sviluppo basato sull'export tentando di aggredire i partner con un rilancio delle esportazioni extraeuropee. Ma Cina e USA non stanno certo lì ad aspettare in un ruolo passivo di osservatori; la guerra continua!
In questo quadro di accentuata competizione globale sembrano prevalere tre strategie europee di uscita dalla crisi.
La prima è la ricetta tedesca, verso quella che considerano la periferia europea, che punta alla destrutturazione del mercato del lavoro a maggiore austerità e maggiore liberalizzazione riducendo le forme anche di protezione sociale. In questo senso le politiche di aggiustamento strutturale in chiave europea hanno come unico obiettivo quello di salvare banche, imprese private e mercato, attraverso un indebitamento pubblico sempre crescente che vede poi come sua cura la privatizzazione dei servizi pubblici di base per creare un nuovo spazio di accumulazione attraverso la nuova catena del valore che si realizza proprio sulle privatizzazioni dei servizi sociali profitti e rendite finanziarie e di posizione.
Quindi un'idea di stabilità dentro i rigidi parametri europei imposti dalla Germania favorendo i processi recessivi con un forte condizionamento negativo sul mondo del lavoro, in termini di costi di specializzazione e di diritti.
Una seconda ipotesi è quella più a guida britannica e di settori di una parte dei potentati della cosiddetta sinistra euroscettica che auspicano la creazione di un "secondo euro", puntando a svalutare e a ristrutturare il debito pubblico complessivo, cercando di attuare anche politiche di nazionalizzazione di alcune imprese e politiche industriali di miglioramento della produttività.
La ultima ipotesi è quella della sinistra europea, anche di quella cosiddetta radicale e di alternativa, che partendo da una ipotesi di analisi della crisi come sottoconsumistica, ripropone una nuova stagione per le illusioni dei keynesiani di sinistra di superamento della crisi attraverso il sostenimento della domanda e un impossibile rafforzamento delle spese di carattere sociale e di investimento in infrastrutture pubbliche, tecnologie, educazione, ecc.
Tale ipotesi necessariamente indebolirebbe fortemente l'euro sui mercati internazionali innescando una competizione internazionale che potrebbe risultare mortale per l'Unione Monetaria Europea e per il futuro dell'area valutaria dell'euro.
Se i Paesi della periferia europea desiderano ritornare al controllo sull'attività produttiva questo lo possono realizzare soltanto in maniera congiunta e mediante un processo di rottura con il modello della finanza privata e dello spazio monetario asimmetrico vigente.
L'uscita dall'euro dovrebbe realizzarsi in forma concertata, in primo luogo tra i paesi della periferia mediterranea con quattro momenti intimamente relazionati senza i quali tale processo potrebbe risultare un disastro per tutti.

Nella nostra analisi e proposta quattro sono i momenti :
a) La determinazione di una nuova moneta comune per l' Europa mediterranea (a titolo esemplificativo potremmo chiamare questa moneta "LIBERA"), cioè una moneta appunto libera dai vincoli monetari imposti nella costruzione dell'euro); b) La rideterminazione del debito nella nuova moneta dell'area periferica (a titolo esemplificativo tale area la potremmo chiamare ALIAS - Area Libera per l'Interscambio Alternativo Solidale) relazionata al cambio ufficiale che si stabilisce; c) Il rifiuto e azzeramento almeno di una parte consistente del debito, a partire da quello con le banche e le istituzioni finanziarie, e l'imposizione di una rinegoziazione dello stesso residuo; d) La nazionalizzazione delle banche e la stretta regolazione (incluso la proibizione momentanea) della fuoriuscita dei capitali dall'area stessa,realizzando al contempo la nazionalizzazione delle imprese dei settori strategici.
Tutti questi elementi si devono però realizzare simultaneamente, per evitare la sottocapitalizzazione dell'intera regione periferica e per assumere un controllo adeguato sulle risorse disponibili per gli investimenti.
L'uscita dall'euro, quindi dall'Eurozona o Europolo, è un'opzione e un passo verso la soluzione dei gravi squilibri strutturali delle economie periferiche che non sono semplicemente squilibri finanziari ma sono innanzitutto di carattere produttivo: una struttura di base industriale in declino, un uso eccessivo e inefficiente enorme della forza lavoro, una concentrazione scandalosa di ricchezza e di patrimonio.
Però non esiste un procedimento fissato per uscire dalla UE, e questo può facilitare la realizzazione della nostra proposta per una nuova moneta per una gestione alternativa dell'economia e della politica, innescata inizialmente all'interno della UE, per aprire uno spazio che faccia avanzare un'ipotesi realmente caratterizzata da riforme strutturali , contraria al neoliberismo e all'attuale struttura di dominio imperante. Bisogna tener conto che la popolazione dei paesi periferici interni vede in maggioranza in forma positiva il contributo effettivo della Unione Europea allo sviluppo istituzionale delle infrastrutture nelle regioni di minore sviluppo relativo ( vedi l'utilizzo dei Fondi Strutturali o la Politica Agraria Comune -PAC), reputandole capaci di raggiungere buoni risultati poiché basate precisamente su criteri non proprio compatibili con quelli del mercato, nonostante negli ultimi anni la PAC sia stata sottomessa ad un processo di liberalizzazione.
Considerato che paesi con sistema politico-sociali differenti come Gran Bretagna, Danimarca o Svezia possono rimanere all'interno della UE però fuori dall'Unione Economica Monetaria, quindi fuori dall'euro, di conseguenza risulterà molto difficile poter impedire ad un blocco di paesi che vogliono realizzare una politica di socializzazione delle risorse produttive di base e degli investimenti.
Determinare quindi un processo di uscita dall'Europolo, cioè dall'Unione Economica Monetaria, senza uscire dall'Unione Europea, per ragioni tattiche, ci sembra politicamente molto conveniente in modo da tener separata e centrale la decisione di realizzare da subito un'altra area monetaria, appunto ALIAS per una politica a favore dei lavoratori, dalla decisione successiva e più a carattere strategico di abbandonare la UE; e in tutti i casi la fuoriuscita rappresenterebbe un'opzione di attacco al sistema del capitale europeo, confermando comunque l'intenzione politica di mettere in discussione da subito le istituzioni comunitarie con un progetto completamente alternativo che è inevitabile si debba mantenere e anzi rafforzare nel tempo inglobano i paesi dell'Africa Mediterranea e dell'Est Europeo nella iniziale area alternativa che vede insieme i paesi della periferia mediterranea. dell'Europa.

Ma l'Alias avrebbe bisogno di una propria moneta che voi chiamate "Libera". E' solo un buon auspicio o ha delle basi materiali e scientifiche per diventare un progetto?

Uscire dall'euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili sarebbe l'unica alternativa realizzabile, che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con le istituzione comunitarie e con la Banca Centrale Europea sia di creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di accumulazione favorevole ai lavoratori.
Una nuova moneta come LIBERA per la periferia europea confliggerebbe inevitabilmente con la strutturazione vigente in materia di integrazione europea.
In tutti i casi una nuova moneta per una gestione alternativa dell'economia e della politica imposta all'interno della UE, potrebbe essere un procedimento utile per offrire ai lavoratori una possibilità di uscita dal disastro che presuppone la stessa costruzione dell'Europa neoliberista (cambiare le politiche porta con sé come esigenza quella di cambiare le regole della stessa Unione Europea), e può servire anche per limitare l'impatto della probabile reazione del capitale e dei suoi rappresentanti politici, reazione che potrebbe essere giustificata in caso di un'uscita volontaria e di un isolamento economico e politico dei Paesi della periferia dell'Europolo.
Cambiare la moneta nei Paesi con un forte squilibrio fiscale porta implicitamente ad una svalutazione quasi immediata. Per questo, il cambio della moneta richiede che allo stesso tempo, su questo non ci devono essere dilazioni, si rinomini il debito esterno ed interno con la nuova moneta LIBERA, al tasso di cambio che i governi considerano più appropriato. Ovviamente questo rappresenta un'altra fonte di tensione politica con i creditori in particolare con quelli interni alla stessa UE, dato che gli agenti finanziari europei sono i proprietari della maggior parte del debito della periferia mediterranea.
La nuova valutazione del debito con il rifiuto del pagamento di gran parte di esso e la rinegoziazione del resto, è un altro elemento necessario per ridurre il peso del debito passato sul finanziamento di un piano di espansione futuro. Questo processo di deve applicare con rapidità, poiché ridurre il carico del debito è una condizione necessaria per poter iniziare un processo di forte creazione di posti di lavoro a caratterizzazione sociale.
E' altresì importante che il cambiamento del sistema monetario e finanziario sia una risposta congiunta, poiché il peso della periferia europea mediterranea è molto superiore a quello dei singoli paesi presi separatamente. Il debito esterno pubblico e privato di quattro paesi portanti di ALIAS (Portogallo, Italia, Spagna e Grecia) è il 23% dell'intero debito dell'UM16: 2,1% il Portogallo; 2,2% Grecia; 9,1% Spagna e 9,7% Italia (dati del debito esterno al primo semestre 2011).
La capacità di resistenza e negoziazione è molto maggiore se realizzata congiuntamente, in particolare se ci si è rafforzati strutturalmente con la nazionalizzazione delle banche e dei settori strategici. La nazionalizzazione di tali settori dovrebbe permettere di realizzare utilità attraverso usi sociali così come l'ampliamento intenso dell'accesso ai sistemi di comunicazione ed energia in particolare per quelle fasce più povere della popolazione locale e per i Paesi alleati della nuova area ALIAS in una pratica di una nuova strategia di sviluppo globale solidale.
Con questa proposta dettagliatamente articolata nel libro vogliamo quindi aprire una ipotesi di dibattito e un percorso di pratica di lotte con un obiettivo diretto e raggiungibile, ma nello stesso tempo realizzare una possibilità concreta per i Sud del mondo che possano trovare nei PIIGS , e in generale nei paesi dell'area mediterranea, l'esempio di un percorso capace di sparigliare le carte dell'"azienda mondo"; un'occasione per appassionarsi a creare una opportunità di un altro mondo possibile "qui ed ora " che dimostri che si può realizzare concretamente un diverso vivere solidale e autodeterminato attraverso percorsi di lotta di un movimento di classe realmente indipendente che si pone strategicamente, ma da subito, il fine del superamento del modo di produzione capitalista.

venerdì 16 settembre 2011

Cgil, Fiom e Fiat secondo Gallino

          Il sociologo Luciano Gallino non ha dubbi: l’intesa sul lavoro firmata dalla Cgil con Cisl, Uil e Confindustria il 28 giugno scorso «rappresenta uno spostamento a destra». E continua a pensare anche che alla Fiat non dispiacerebbe avere un «pretesto per ridurre o rinunciare agli investimenti in Italia». Nell’intervista che segue, spiega perché.
L’accordo interconfederale con la Confindustria riavvia un processo di contrattazione unitario che pare però preoccupante. Il contratto nazionale non diventa così sempre derogabile?
In effetti il secondo comma dell’art. 7 dell’accordo prevede che in presenza di «situazioni di crisi» o di «investimenti significativi» si possono modificare gli istituti del CCNL. Sia le une che gli altri possono venire definiti in cento modi diversi, in specie nelle piccole e medie imprese. Perciò, di fatto, in tema di prestazioni lavorative, orari e organizzazione del lavoro, il CCNL è derogabile praticamente senza limiti.
L’accordo non toglie quasi definitivamente la possibilità per i lavoratori di votare intese firmate dai vertici sindacali?
Non mi pare vi siano dubbi. Quando un accordo aziendale è firmato da una rappresentanza certificata, i lavoratori non hanno più la possibilità di esprimere il loro consenso o dissenso in merito ad esso. In astratto, potrebbero anche organizzarsi per esprimerlo, ma stando all’accordo interconfederale esso non avrebbe alcun valore. Paradossalmente, il principio per cui i lavoratori hanno comunque il diritto di esprimersi mediante il voto è ribadito con particolare forza dallo statuto della stessa Cgil.
Secondo lei, perché la Cgil oggi ha firmato quel che nella sostanza è la stessa cosa che non ha firmato nel 2009?
Da anni la Cgil ha tutti contro: le altre due confederazioni, il governo, il 90 per cento degli accademici che si occupano di lavoro, i media, perfino gran parte dei politici del centro-sinistra. L’accordo in parola rappresenta senza dubbio uno spostamento verso destra, ma in un contesto politico e culturale che nonostante la crisi, o meglio proprio per sfruttare la crisi, appare sempre più virare a destra, un’organizzazione così vasta e complessa non può non avvertire anche al proprio interno spinte per portarsi su posizioni meno distanti da quelle dominanti.
Quale è il suo giudizio sulle Rsa?
I membri delle Rsu sono eletti dai lavoratori. I membri delle Rsa sono designati dai sindacati, anche se minoritari. In altre parole le Rsu sono una forma, imperfetta quanto si vuole, di democrazia diretta o partecipativa. Le Rsa sono un’ennesima forma di democrazia per delega dall’alto. Sono per la prima forma di democrazia.
La centralità che assume sempre di più la contrattazione aziendale non rischia di accentuare la tendenza alla frammentazione del sistema industriale italiano?
Su questo non c’è il minimo dubbio. Un sistema che è già di per sé il più frammentato della Unione europea a 17 ed è molto meno organizzato, ad onta delle infinite discussioni su distretti in forme di cooperazione interaziendali come avviene invece con i «poli di competitività» in Francia, le «reti di competenza» in Germania, ecc.
Come valuta la «tregua», in sostanza la sospensione del diritto di sciopero?
E’ un altro colpo inferto alla libertà di associazione e di azione sindacale.
Cosa prevede nelle relazioni fra Fiat e Fiom, se il prossimo 18 luglio il tribunale desse ragione al sindacato sul contratto di Pomigliano?
Ho l’impressione che alla Fiat non spiacerebbe avere un pretesto per ridurre o rinunciare agli investimenti in Italia. Il suo centro produttivo è ormai in Brasile e in Messico, dove a Toluca vengono costruite sia la 500 che i macchinoni Chrysler da vendere in Italia e in Europa con la placchetta Lancia o Alfa Romeo. Nel 2010 la Fiat ha prodotto in Italia meno auto di quante non ne abbiano prodotte al loro interno Germania, Francia, Regno Unito, Spagna, Polonia, Repubblica Ceca e Serbia. Ritornare ad essere, dall’ottavo, anche solo uno dei primi tre costruttori è un impegno di enorme portata. Se ai lavoratori italiani e alla Fiom potesse venire appioppata definitivamente l’accusa di essere inaffidabili, poco produttivi, renitenti alle forme moderne di organizzazione del lavoro, il disegno americanocentrico del Lingotto ne sarebbe facilitato.